Sul finire del quarto secolo dell'era volgare un filosofo destinato a diventare padre della Chiesa e imprescindibile punto di riferimento per la filosofia occidentale seguente, giunge a Milano e scopre che la lettura non si fa solo a voce piena, ma può essere un'attività silenziosa, romita, in cui abbandonarsi. Nel 1969, un astronauta di nome Neil Armstrong compie in mondovisione due azioni che mai altro uomo aveva potuto realizzare: cammina sul suolo lunare e parla dalla luna a milioni di persone sulla terra. Mai la voce umana si era spinta così lontano. In mezzo a questi due eventi, la lettura e la parola sono le protagoniste di una lunghissima storia da narrare.
I
Nell’autunno del 384 d.C. un giovanotto, trentenne, che era giunto l’anno prima dall’Africa a Roma, se ne andò a Milano. Stava vivendo una lunga crisi esistenziale: a 18 anni aveva avuto un figlio che si portava con sé e che, forse per non peccare di zelo, aveva chiamato Adeodato; era tormentato dal problema del male, cui la riflessione personale e le medicine dei Manichei, ai quali si era rivolto già a Cartagine, non avevano portato sollievo; ed era esperto di grammatica e retorica, avendole insegnate in patria per anni. Fu proprio il più grande tra gli oratori latini del tempo, Quinto Aurelio Simmaco, eletto da poco praefectus urbi, a raccomandarlo per una cattedra di oratoria e retorica a Milano.
Il giovane in questione si chiamava Aurelio Agostino.
Allora a Milano c’era in qualità di vescovo Aurelio Ambrogio, di fede cattolica, di grande abilità politica e profonda conoscenza dottrinaria, che metteva al servizio di una missione episcopale votata alla carità e al servizio dei suoi fedeli.
Agostino era affascinato da questa figura e pensava che avrebbe potuto aiutarlo a risolvere la propria crisi interiore. Solo che non riusciva a parlarci [1] perché anche nel poco tempo che non impiegava nelle attività ufficiali, Ambrogio si dedicava ad approfondire le proprie conoscenze in materie bibliche e teologiche. È a queste pratiche intento che lo trova spesso Agostino, quando lo raggiunge nella sua cella, volto a una pratica che Agostino trova talmente strana da doverla raccontare, a distanza di anni, nel libro VI delle sue Confessioni, l’opera forse più famosa del padre della chiesa. Narra infatti Agostino che ogni volta che andava alla cella di Ambrogio, che rimaneva aperta a tutti, lo trovava a leggere in silenzio.
Quando leggeva, l’occhio correva lungo le pagine e l’intelletto ne scrutava il significato, voce e lingua stavano in riposo. […] però un motivo ragionevole di questa tacita lettura poteva essere quello di risparmiare la voce che molto facilmente gli si affiocchiva [2].
Siamo nel 400 e Agostino è sorpreso dal fatto che qualcuno legga in silenzio, tanto da dover trovare una ragione plausibile che lo spieghi. Questo aneddoto è importante perché ci mostra, se mai ce ne fosse bisogno, che la lettura ha una sua storia e molte sono state le modificazioni dell’atto del leggere; tanto che la lettura con gli occhi, come ancora la intendiamo noi, è evento piuttosto recente. Per secoli i testi sono stati scritti perché qualcuno li leggesse a voce alta, perché qualcuno affiancasse al potere proprio della parola, quello della voce, del tono, dei movimenti del corpo, dell’ambiente e così via. È stato un processo graduale quello che ci ha condotti alla lettura cosiddetta endofasica, alla lettura tra noi e per noi. Il secolo in cui tutto questo è arrivato a compimento è stato il XVIII, secolo delle grandi rivoluzioni, della guerra d’indipendenza, dei lumi, della borghesia e anche, cosa che qui interessa di più, dell’affermarsi totale e incontrastato di un nuovo tipo di genere letterario, destinato a un successo tanto immediato quanto generalizzato: il romanzo.
Questa rivoluzione non è slegata alla definitiva prevalenza della lettura che potremmo definire a voce spenta. La lettura dentro di noi, privata è quella che ci permette di perderci in una storia, quella che ci fa credere di poter leggere all’infinito, dimenticandoci di tutto e tutti, dei rumori, delle incombenze, del mondo esterno, seguendo da principio a fine le trame e gli intrecci costruiti dall’autore per il nostro diletto, in un microcosmo in cui arriviamo come ospiti e come spettatori sostiamo.
II
Il 21 luglio del 1969 invece, alle 2:56 UTC, succede che un uomo, un americano di nome Neil Armstrong, mette per primo il piede sul suolo del nostro satellite, dopo 109 ore e 42 minuti di viaggio. Appena appoggia il piede, il sinistro, dice: That's one small step for (a) man, one giant leap for mankind; una frase studiata e preparata in anticipo che in breve diviene storica e che tutti hanno sentito o ripetuto almeno una volta nella vita. Sono le prima parole che un uomo pronuncia dalla luna, e proviamo solo a immaginare quale confusione e tensione ci fossero in quel momento nella base NASA a Houston.
E proviamo anche a pensare che gli strumenti non fossero perfetti e che la cuffia attraverso cui Armstrong comunicava, la Plantronics MS50 abbia potuto non dare il meglio di sé, in quell’occasione di tensione e apprensione e gioia ed entusiasmo. Fatto sta che una piccola parola, una lettera, quell’articolo di assoluta modestia si è perso. Armstrong disse è un piccolo passo per un uomo, intendendo sé stesso, la propria nullità di fronte a quello che stava accadendo e tutti capirono piccolo passo per l’uomo, in genere. Armstrong in quell’articolo metteva in evidenza, davanti al mondo intero, che ogni esperienza è sempre quella del singolo e che c’è un margine irriducibile che distanzia l’io dal noi e che lo chiama a rispondere di ciò che accade.
III
Nel 400 abbiamo letto dello stupore di un filosofo nel vedere qualcuno leggere senza voce, perché la voce era andata a finire totalmente dentro di sé. 1600 anni dopo, la voce umana era stata mandata nel posto più lontano possibile, laddove mai un uomo si era spinto e da dove mai nessuno aveva parlato [3].
Nello stupore di Agostino, nel tremore di Armstrong, vediamo congiunte due esperienze che la narrativa ci rende carissime. Quando leggiamo e ci perdiamo nelle parole dei grandi scrittori, la sensazione che proviamo è sempre quella: di essere i primi a mettere il piede in un mondo inesplorato, nuovo, straniero.
Note
[1] «Non potevo a mio piacimento interrogarlo su ciò che mi interessava: mi impediva di aprirmi a lui e di ascoltarlo una folla di gente indaffarata, alle necessità della quale era sempre pronto: il pochissimo tempo in cui ne era libero, gli serviva o a ristorare le forze del corpo con il cibo indispensabile o quelle dell’animo con la lettura». Agostino, Le confessioni, trad. it. di Carlo Vitali, Fabbri, Milano 1996, p. 166
[2] Ibid.
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