Caffè [caf-fè] s.m. inv.
You used to smile at me, Give me something I need, Bring me coffee or tea, And call me pretty little bee
Can – Bring me coffee or tea
El cafè l’è bon con tre S: sentà scotando e scrocando
Proverbio veneto
Mi ricordo di una ragazza spagnola che conobbi quando ero in una sorta di collegio a Mosca. Mi disse: voi italiani siete tutti così, quando c’è da parlare per prendere una decisione dite: beviamoci un caffè.
Ed è vero. Il caffè per noi è un rito, la moka è il suo baluardo ed “espresso” è una delle parole italiane più conosciute e diffuse, e questo ancora prima che il piacione di Clooney gioggioneggiasse in specula et in aenigmate.
Non so se siamo ancora un popolo di poeti, santi e navigatori ma certo siamo tutti caffettoni. Attorno a questa meravigliosa bevanda abbiamo costruito una civiltà, fatta di immagini, marchi (brand, come si dice oggidì), canzoni, filastrocche, ricordi, tradizioni e, ahimè!. Vassoi in silver plate presi coi punti del Famila. E questo nonostante l’infanzia di tutti noi sia stata ferocemente traviata da un qualche filone eversivo, che cercava di convincerci che il caffè fosse quello preparato dalla Peppina:
La Peppina fa il caffè
fa il caffè con la cioccolata
poi ci mette la marmellata
mezzo chilo di cipolle
quattro o cinque caramelle
sette ali di farfalle
e poi dice: “Che caffè!!!”
Per il qual scempio, tuttavia, è stata fatta giustizia, se è vero che:
La peppina fa il caffè
Fa il caffè di cioccolata
La peppina è ammalata
È ammalato di dolor
La peppina fa l’amor
Fa l’amor col capitano
La peppina va in areoplano
L’areoplano cade giù
La peppina non c’è più.
E pace all’anima sua.
Il caffè è cultura. Ha un potere che nessuna altra bevanda ha in egual modo; ha creato ed aperto uno spazio sociale: il caffè, anche se poi la nostra mitocondriale anglofilia ha preferito lasciare che si diffondesse l’asettico e lamieroso termine bar.
Eppure all’inizio, alla diffusione nell’intera Europa del caffè in quanto bevanda si affiancava la creazione del caffè in quanto spazio pubblico, in cui sostare a bere e chiacchiarare; dapprima, nell’Inghilterra del XVII secolo, furono le cosiddette coffeehouse; poi l’abitudine venne presto esportata in Germania, in Francia, in Italia, negli Stati Uniti; qui, per inciso, la prima coffe house venne aperta nel 1689 a Boston, nel cui porto e quasi un secolo dopo prenderà atto il famoso Boston Tea Party, protesta che darà avvio alla rivoluzione americana: forse la caffeina un po’ nervosetti rende, no?
E qui, in questi nuovi spazi sociali, luoghi d’incontro e di scontro, oltre all’inebriante aroma della bevanda, si spargevano nell’aria i sapori suadenti ed eccitanti delle nuove idee liberali. Il caso italiano è sintomatico: dal 1764, dopo che Milano era passata dal dominio spagnolo al controllo austriaco, un gruppo di letterati iniziò a dare alle stampe una rivista intitolata: Il caffè, ossia brevi e vari discorsi distribuiti in fogli periodici. La rivista usciva a Brescia, al tempo sotto la giurisdizione della liberale Repubblica di Venezia, allora ancora Serenissima; tra i membri vanno ricordati i fratelli Verri, Cesare Beccaria, Pietro Secchi, Paolo Frisi, Giuseppe Visconti, Sebastiano Franci. Borghesi capaci di interrogarsi su svariati temi (commercio, produzione, linguaggio, cultura in senso lato etc.) senza accettare per principio l’autorità indiscussa di qualche istituzione. La caratteristica della rivista era certo l’intento (e la capacità di metterlo in pratica) di rinnovare il concetto di rivista fino ad allora in auge attraverso una modifica del linguaggio usato (non erudito, non pedante, vicino alla colloquialità), dell’oggetto trattato (non massimi sistemi, verrebbe da dire, ma argomenti afferenti al quotidiano, pratici, di utilizzo ed interesse diffuso), del pubblico di riferimento (non eruditi, non intellettuali aristocratici, ma professionisti, commercianti, artigiani); il tutto in vista di una nuova politica, illuminata, riformista, liberale, che stimolasse la nascente (per l’Italia) economia capitalistica.
Perché non vieni su da me,
Ecco, solo un esempio per dire che il caffè, anche nell’immaginario, è qualcosa che mette insieme ed accomuna. E si declina in molti modi, in tempi diversi. Corto, lungo, caldo, macchiato freddo, macchiato caldo, in tazza grande, in tazzina, in tazza col bordo fino, con zucchero, amaro, corretto grappa fernet vecchiaromagna bayles rum, sciacquando prima la bocca con un bichierino d’acqua quasi a preparare le papille all’idillio, sciacquando dopo per lavare i denti e avanti di questo passo. A ciascuno il suo caffè! Il segreto, però, dice Artusi, sta nella tostatura. Difficile. E nella miscela, guai a sbagliare le percentuali di arabica e libica!
E una volta che il tostatore ha tostato, il miscelatore ha misceltato e il macinatore ha macinato, ecco la regina della casa, la Moka, pronta ad essere riempita e mezza sul fuoco.
Attesa, respiro. Suono inconfondibile. Aroma. E’ ora.
Sono seduto, ti ho di fronte, un sorso via l’altro e ci guardiamo negli occhi. Nell’aria il profumo buono, la tazza calda a contatto con la mano, e il lento sapore che si diffonde in bocca. Penso che è come si dice debba essere: il caffè va preso seguendo le tre S: seduto, scottante, sorseggiando. Anche soli, se è il caso. Ma con te è meglio. Un sorso via l’altro. E’ l’inestricabile segreto di un caffè.
Perché non vieni su da me,
saremo soli io e te,
ti posso offrire un caffè,
in fondo che male c’è.
Ma cosa hai messo nel caffè
che ho bevuto su da te?
C’è qualche cosa di diverso
adesso in me;
se c’è un veleno morirò,
ma sarà dolce accanto a te
perché l’amore che non c’era
adesso c’è.
[Riccardo Del Turco]
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