La domanda, a cui non do risposta, è: deve l'editor di una rivista correggere un errore presente nel pensiero espresso da una persona intervistata? Lo spunto viene da un post IG nell'account dell’editore Feltrinelli, che pubblica uno stralcio (una frase) dell'intervista rilasciata da Valeria Parrella, fresca di uscita editoriale, alla rivista Artribune. Sta parlando del proprio atto di scrittura e dice:
È un “sinolo”, direbbe Aristotele: forma e sostanza sono un’unica cosa. Grazie all’esercizio di leggere e scrivere ad alta voce, se qualcosa sfugge o stona te ne accorgi, ti vergogni e quindi lo cancelli.
Aristotele non dice questo. Sinolo, che viene dal termine greco σύνολον a sua volta composto da σύν «con» e ὅλος «tutto», è effettivamente un termine aristotelico, anzi, lo è per antonomasia nel senso che è stato lui a introdurlo e l’uso che se n’è fatto in seguito è sempre stato circoscritto alla filosofia e alla critica aristotelica; con sinolo Aristotele designa la sostanza concreta individuale, che è sintesi di forma e materia (forma e sostanza, quindi, non sono la stessa cosa, cosa che invece, semplificando, vale per Platone). Nella Metafisica fa l'esempio di una statua di bronzo, che è quella concreta individuazione di una forma specifica e dell'informe materia che è il bronzo. Sinolo si applica anche per gli oggetti naturali. Usare sinolo non può che rimandare a questo significato; è un termine specifico che nel tempo non è stato, a quanto mi risulta, assorbito dal linguaggio comune e usato differentemente, per metafore, analogie, o perché si sia estesa la sua portata connotativa.
Prendiamo un altro termine inerente a questi discorso, quello ben più diffuso di sostanza. È un termine che compare nella speculazione filosofica e che traduce, a seconda di chi scrive e di ciò a cui sta facendo riferimento, i termini greci οὐσία (tradotto anche come essenza, e che per Aristotele è appunto il sinolo di cui dicevamo) e ὑποκείμενον, cioè il soggetto a cui le altre categorie si riferiscono come predicati, quella cosa cioè che rimane stabile al variare di generi, specie e accidenti. Nel tempo però il significato di sostanza si è esteso, arrivando ad avere molteplici accezioni via via meno specifiche; sono sostanze quelle della chimica, cioè certe composizioni dotate di particolari proprietà (gassose, per esempio) o che provocano un determinato effetto (dopanti, allucinogene, etc.); diciamo sostanza per intendere consistenza (è un uomo senza sostanza), o per riferici agli averi di qualcuno, ai beni di una famiglia.
Il termine sostanza permette una libertà che non c’è se si vuole usare sinolo. Piuttosto, dato il tema trattato, quello della lettura ad alta voce, Aristotele torna utile per un fatto interessante. Era normale ai tempi del nostro filosofo che i testi venissero letti ad alta voce da uno schiavo; si trattava di una lettura indiretta, diciamo così. Aristotele, invece, preferiva di gran lunga arrangiarsi, e compulsava smaniosamente rotoli su rotoli per attingere alle fonti in maniera autonoma. Questo è un aneddoto piuttosto famoso della tradizione, ne parla tra i tanti anche Pico della Mirandola, nella sua celebre Oratio de hominis dignitate, dove si legge:
Da tutti gli antichi fu infatti osservata questa norma, di passare in rassegna ogni genere di scritti, non tralasciando di leggere alcun libro che potessero procurarsi; e in modo particolare fu osservata da Aristotele, che per questo motivo era chiamato da Platone ἀναγνώστης, cioè lettore.
Il collezionismo librario di Aristotele era noto e stupefacente; se ne serve anche Margaret Doody, nel primo volume della fortunata serie che ha come protagonista proprio Aristotele, nelle vesti di un detective. Stefanos si reca da Aristotele per chiedergli aiuto su un fatto criminoso accaduto in Atene, e lo schiavo lo fa attendere in una stanza, perché il filosofo sta ancora pranzando con la moglie (citazioni da M. Doody, Aristotele detective, trad. di Rosalia Coci):
Mentre aspettavo nella piccola stanza confortevole, con la sua straordinaria quantità di libri (Aristotele aveva libri di sua proprietà, e non due o tre soltanto, ma una grande quantità, e li teneva in casa) cominciai a sentirmi nuovamente depresso.
Pochi paragrafi prima, Stefanos sentendo Aristotele che parlava con la moglie durante il pranzo, fa correre la mente ad alcune dicerie ascoltante in città:
Alcuni consideravano strano che Aristotele, allontanatosi per tanto tempo dall’Accademia e sottrattosi alle conversazioni per dedicarsi alle sue letture solitarie, traendo piacere apparentemente solo dal mondo dei libri e delle dissertazioni filosofiche, fosse tornato in Atene ammogliato, dopo lunghi anni d’assenza e di misteriose missioni diplomatiche in terra straniera.
Da questi due stralci capiamo che, tra le molte peculiarità dello Stagirita, a colpire fossero anche la sua abitudine di possedere i libri che leggeva, e quella di leggerli in solitudine. Qualcuno addirittura pensa che Aristotele sia stato uno dei primi a introdurre una lettura silenziosa dei testi, quel tipo di lettura che tanto fece stupire il giovane Agostino appena arrivato a Milano e recatosi dal vescovo Ambrogio:
Quando leggeva, l'occhio correva lungo le pagine e l'intelletto ne scrutava il significato, voce e lingua stavano in riposo. E, poiché a nessuno era precluso l'ingresso a casa sua, né si usava annunziare chi sopraggiungeva, molte volte ce ne stavamo seduti in lungo silenzio - chi avrebbe osato disturbare tale raccoglimento? -, e lo vedevamo sempre leggere a quel modo silenzioso, mai altrimenti [Confessioni, VI, 3, Trad. di Carlo Vitali].
Chissà. Certo è che nella Retorica Aristotele dice qualcosa di ambiguo, ma che comunque ci riporta sul tracciato aperto dalla Parrella:
In generale, quel che è scritto dovrebbe essere facile da leggere e facile da pronunciare – che è poi la stessa cosa. E questa è una qualità che manca dove si ha un uso frequente delle particelle correlative, e nelle frasi in cui è difficile a punteggiatura, come negli scritti di Eraclito [Retorica, III, 1407b, Trad. di Marco Dorati].
Eraclito che non a casa era soprannominato l’oscuro. Leggere e pronunciare sono la stessa cosa, dunque. Affermazione che si presta sia ad essere intesa estensivamente, nel senso che leggere è leggere ad alta voce; sia intensivamente, nel modo osservato da Agostino che guardava Ambrogio, la cui lettura silenziosa non era scevra da una sorta di pronuncia muta delle parole.
Il passo citato, inoltre, ci dice che la lettura pronunciata mette alla prova il testo, ne mostra la durezza, l’architettura difettosa, gli errori o l’assenza di punteggiatura, e permette di intervenire, modificare, migliorare; questo perché in fondo non esiste una scrittura che non sia pensata per la lettura.
La voce insomma c’entra e ha, o può avere, gran parte nella costruzione finale del testo. E su questo Aristotele non dice altro? Nemmeno per idea. Anzi, c’è un passo con cui vorrei chiudere, famosissimo perché è stato poi ripreso come base per secoli da chi si è occupato di linguaggio. Lo troviamo in apertura del Peri Hermeneias (De interpretatione, tradotto in italiano come Dell’espressione o Sull’interpretazione), un testo logico scritto nella maturità il cui fine non era ricostruire la genesi del linguaggio umano, ma occuparsi dei cosiddetti enunciati apofantici, cioè gli enunciati dichiarativi sottoposti al giudizio di verità/falsità. Ciononostante, i paragrafi iniziali introduttivi abbozzano delle considerazioni sul linguaggio e sono stati usati per sostenere che Aristotele avanzasse una teoria convenzionalista. Qui di questo aspetto poco importa, interessa invece riportarlo per una considerazione conclusiva:
Ora, i 〈suoni〉 che sono nella voce sono simboli delle affezioni che sono nell’anima, e i segni scritti lo sono dei 〈suoni〉 che sono nella voce. E come neppure le lettere dell’alfabeto sono identiche per tutti, neppure le voci sono identiche. Tuttavia ciò di cui, come di determinazioni〉 prime, queste cose 1 sono segni, sono le affezioni dell’anima, identiche per tutti e ciò di cui queste sono immagini sono le cose, già identiche.[...]
E come nell’anima talvolta vi è un pensiero indipendentemente dall’essere vero o falso, talvolta ve n’è uno già al quale è necessario che competa una o l’altra di queste cose, così è anche nella voce. Infatti il falso e il vero riguardano la congiunzione e la separazione. Ora i nomi, di per sé, ed i verbi assomigliano ad un pensiero senza congiunzione e separazione, ad esempio uomo o bianco, quando non vi sia aggiunto qualcosa. Infatti non é ancora né falso né vero. Eccone la prova: ed infatti capricervo significa qualcosa, ma non è ancora vero o falso, se non sia stato aggiunto l’essere o il non essere, o in senso assoluto o secondo il tempo [Sull'interpretazione, 16a, 3-19, Trad. di Marcello Zanta].
Aristotele, riferendosi in queste righe al capricervo (tradotto anche becco-cervo o ircocervo), mette in luce un aspetto fondamentale: all’uomo è anche concesso una sorta di superpotere, che dalle prime storie dei nostri antenati seduti attorno al fuoco ci ha permesso di arrivare vivi e vegeti ad aggiornare i nostri status social: può parlare anche di ciò che non è, può inventare e inventando raccontare.
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