Una discesa agli inferi. Non quella di Gesù per salvare le anime imprigionate per non aver creduto, come ci racconta Pietro nella sua prima lettera e come Tommaso cerca di chiarire nella quaestio 52 della terza parte della sua imponente Summa.
E nemmeno quella che compare nell’Odissea[1], e fa da canone per la classicità e oltre. Siamo nel libro XI e in quei versi c’è un Ulisse molto provato che dopo essere riuscito a lasciare Circe e la sua isola, approdato presso i Cimmeri, scende nell’Oltretomba con lo scopo di incontrare l’indovino Tiresia e farsi predire il futuro, come di fatto avviene.
Nel primo caso Gesù scende come dio immortale e insieme come uomo morto. Nel secondo caso Ulisse è vivo e la sua visita è dunque eccezionale. Faranno lo stesso anche altri: tra i maggiori ricordiamo Enea, nel poema virgiliano, e il Dante della Commedia: vivi tra i morti, che sono ombre che vagano col medesimo sembiante che avevano in terra.
Quella dipinta da Romolo Bugaro è una catabasi diversa, amarissima e di grande solitudine. Soprattutto, terrena.
Voleva dire che la vita di sempre non esisteva più, stavi entrando nel regno delle figure che svaniscono.
Non serve alcuna porta, o grotta, come per Orfeo o pozzo, come quello di San Patrizio; non ci sono prove da superare, rami d’oro da cercare o focacce con cui tenere a bada i vari Cerberi guardiani.
È già tutto qua, alla nostra portata. È in questo tempo disumano e vile che di ciò che siamo, in un attimo e per motivi allotri, rimane un’immagine che in breve trascolora e scompare.
Bugaro prende e piega dunque questo archetipo e lo affianca ad un’altra figura, centrale nelle cantiche dantesche: quella delle stelle capaci di imporsi allo sguardo di ogni homo viator nelle notti buie e terse. Ma agli occhi dei personaggi di Bugaro, così realisticamente tratteggiati in questa moderna tragedia, le stelle non sono simbolo di luce che dona speranza per un nuovo inizio, per una buona sorte; sono piuttosto anch’esse copia di altre stelle, cristallizzate nella memoria, come lentiggini in un viso che un tempo sorrideva. Nel presente invece, esse puntellano il cielo di notti che sono buie soprattutto perché correlate al dis-astro che accade nell’animo dei protagonisti, vittime di un incedere esorbitante che gli eventi hanno preso e che nessuna forza contraria può più frenare.
Aveva trascorso un inverno interminabile viaggiando in jeep lungo strade sterrate piene di buche, per visitare grandi cantieri nel bel mezzo del deserto; aveva passato sere piene di silenzio sulle terrazze di alberghi ai piedi dei monti dell’Atlante, sotto un cielo tempestato di stelle talmente brillanti e vicine da dissolversi in chiazze di luce diffusa, un cielo grande come il mondo intero che riportava alla mente tutti i successi e tutti gli errori, sempre più difficili da distinguere nella distanza crescente dalla vecchia vita.
O ancora:
Dopo la musica della Cascina, il silenzio della piazzetta della Specola sembra del tutto irreale. Seduta a gambe incrociate sul muretto, Courtney Love guarda i mulinelli d’acqua del fiume che scompongono e ricompongono il riflesso della luna.
Ha vissuto una vita faticosa, usurante, e adesso si sente poco capace di mantenere l’andatura. La sensazione di aver sbagliato tutto è sempre lì, difficile da tenere a bada. Fuma una sigaretta e guarda il cielo pieno di stelle nebulizzate dentro chiazze di luce diffusa.
È, il domino del titolo, un correlativo capace di indirizzare la mente del lettore all’ineluttabilità di certi eventi. Una volta che si sia superato un certo punto, un certo limite, le cose non fanno che andare per la loro strada, su di un piano inclinato in cui l’attrito non abbia più ormai alcuna possibilità. Non basta tuttavia il domino a rappresentare i movimenti narrati in questo romanzo, nel quale l’autore dà conto anche di quelli che, in gergo militaresco, potremmo chiamare danni collaterali; e che sono in ultima analisi i fatti che più contano, quelli che escono dal tracciato delle tesserine del domino e che pure ac-cadono con uguale forza, uguale dolore.
Certo, Bugaro di cose così ne conosce e ne ha viste molte, per il lavoro che fa. Allora conta ancora di più che si percepiscano chiaramente due cose: da un lato, la totale assenza di assuefazione a queste storture; dall’altro, l’eguale distanza da ogni giudizio, accusa, morale. Il primo termine ci permette di dire che il secondo è non per mancata compassione, per disinteresse, quanto piuttosto per il tremendo desiderio di mostrare le cose per quelle che sono, di dire la verità facendo il proprio mestiere di scrittore. Per questo in molti punti del romanzo c’è bisogno di ricorrere a punti luce naturale e artificiale, così da illuminare le scene e i personaggi, gli uni dentro alle altre, in una lacerante pantomima.
È quindi un romanzo in chiaroscuro come la vita dei suoi protagonisti, così simili alle persone reali alle quali l’autore già aveva accennato in Bea vita!; persone fotografate alla fine di un grande inganno, mentre affondano i piedi tra le tessere cadute, incapaci di credere che di tutte le cose avute e fatte non restino che oggetti ormai svuotati di senso, “crisalidi vuote di prosperità trascorse”.
[1] «Divino Laerzíade, ingegnoso Odisseo, / ah pazzo! che altra fatica maggiore mediterai nell’animo? / Come osasti scendere all’Ade, dove fantasmi / privi di mente han dimora, parvenze d’uomini morti?», Omero, Odissea, XI, 473-476, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti
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