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Geografie di Comisso. Cronaca di un viaggio letterario, di Nicola De Cilia

Aggiornamento: 23 ott 2019

In questo libro, Nicola De Cilia ci propone un viaggio di (ri)scoperta di Comisso, attraverso i suoi luoghi, le sue parole in un proficuo dialogo nel quale la differenza di voce e missioni restituisce un ritratto d'artista intenso e convincente.

L’ultimo lavoro di Nicola De Cilia è scritto coi piedi. In questo carattere, così umano così fisico, sta parte della sua riuscita. Il titolo, Geografie di Comisso. Cronaca di un viaggio letterario, mette sull’avviso il lettore attento circa lo statuto dell’opera, sulla sua duplice natura.

C’è un dato essenziale e che pertiene alla sostanza del testo: siamo davanti a una lettura superficiale e spaziale di un autore, cioè relativa al suo percorrere il mondo, al suo calcare il piano terrestre in direzioni varie e a volte contrarie con un carattere di indomita energia. De Cilia dice e mostra: lo scrittore Comisso, così parcellizzato dalla critica nel suo trevigianismo è in realtà scrittore nomade e universale.


C’è un secondo dato, altrettanto importante e che riguarda invece la struttura dell’opera, presentata come una cronaca, in omaggio non certo alla rubrica giornalistica, quanto al modo originario della storiografia di annotare gli eventi nell’ordine in cui accadono, cronologico (che con cronaca spartisce il medesimo padre etimologico, quel Chronos che il poeta Platone definì l’immagine mobile dell’eternità[1]). Il libro è dunque una cronaca così intesa di alcuni eventi che riguardano un viaggio intrapreso a motivo del pedinamento postumo di un autore che nel viaggio trovava riposo all’uggia del vivere.


Trovo che il titolo dia le coordinate (e cosa, se no?) perfette per affrontare con profitto la lettura del testo, esito finale e computo della fatica dell’autore che, lo accennavo sopra, si mette in cerca delle tracce lasciate dal passaggio di Giovanni Comisso. Lo fa in modo che non ne risulti un mero diario, ma che vi sia un forte collante narrativo a tenere uniti i vari capitoli, a renderli godibili. Insieme, ciò che importa dire non pecca mai né di autobiografismo – quello trito in cui l’autore sovrasta il testo; né di letterarietà, che ha spesso troppo a che fare con la “didascalicità” del professore in cattedra (che pure De Cilia è, ma che pure sa non essere).


Un aspetto di ulteriore fascino, non so dire se frutto di un’idea cosciente o meno, sta nella forza iconoclasta del testo. È cosa vecchia come la letteratura[2] che le sue parole rendono immortali; questo vale anche per la narrativa di Comisso che ovunque è stato ha saputo cantare il territorio, seguendo la sua capacità rara di entrare in una sorta di sintonia sensuale coi luoghi che attraversava e nei quali sostava. Bene, la marcia di De Cilia quale pedinatore di un contumace, funziona come disvelamento di continue mancanze. Di ciò che Comisso descrisse non resta che qualche detrito, pochi ruderi, alcune sembianze che sperano di trovare del sangue fresco[3] da bere per poter tornare, per un attimo, coscienti e vivide. Cosa infatti possono le parole, pur altissime e nutrite di gioiosa o dolorosa passione[4], contro il potere di Chronos e l’incuria di Ādām? È possibile trovare soluzione al dubbio che queste pagine lasciano e che paiono rimandare all’inganno cui ogni narrazione soggiace?

A complicare le cose e la riuscita di questo viaggio sta certo la natura stessa di Comisso, per essenza profuga, screziata in fondo da quella che definirei una tensione dell’abitare; quello vissuto da Comisso è un trasloco continuo dell’anima, mai pacificata, semmai in ultimo arresa a ciò che De Cilia definisce benissimo come bonaccia esistenziale. Il viaggio va parallelamente alla ricerca di una casa, ma più ancora della casa, del luogo eccelso in cui stare. Ecco perché l’oggetto della ricerca di De Cilia sarà sempre mancante, sempre un passo più in là: l’uomo – e l’artista in massima misura – è sempre in esilio, costituzionalmente[5].


Geografie di Comisso rende onore a un autore importante in modo degno e onesto cercando nella sproporzione che sempre separa autore e biografo, narrato e narrante, una via di chiarificazione.


Chiudo rilevando un ultimo aspetto, tutto interno alla prosa di De Cilia. Il testo è anche cronaca dell’attraversamento dei paesaggi naturali che l’autore incontra lungo il suo pellegrinaggio e vive di una ricchezza e precisione lessicali difficili da trovare nella narrativa contemporanea. È un fatto che merita attenzione perché il rischio della pedanteria è alto e vicina la possibilità di naufragare tra i moti ondosi del nozionismo fine a se stesso. Eppure qui non accade. Credo sia una forma di autodifesa e credo che in questo emerga l’unico dato autobiografico che conti. Davanti a un autore così sensuale, al limite panico e erotico nel suo dilagare nel mondo (potremmo usurpare il felice sintagma di Comisso stesso: frenetica danza), De Cilia evita di passare per triste epigono e si oppone a quella stessa natura con una destrezza sì tassonomica, ma in senso prodigo, genetico: nominare – e qui torniamo a Adamo ma prima della caduta – è creare. In questo sta, e per sempre, la gioia immortale della letteratura.


Nicola De Cilia, Geografie di Comisso. Cronaca di un viaggio letterario

Ronzani editore, 2019

Pagg. 224

€ 16,50

[1] Cfr. Platone, Timeo, 37d

[2] Cfr. Omero, Iliade, VI, 357-358: «A noi Zeús impose un triste destino: anche in avvenire / saremo famosi tra gli uomini che verranno»; Orazio, Odi, III, 30: «Èxegì monumèntum àere perènnius / règalìque sitù pýramidum àltius, / quòd non ìmber edàx, nòn Aquilo ìmpotens / pòssit dìruere àut ìnnumeràbilis / ànnorùm seriès èt fuga tèmporum».

[3] Cfr. Omero, Odissea, XI, 152-153

[4] «Forse noi siamo qui per dire: casa / ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra, / al più: colonna, torre... Ma per dire, comprendilo bene / oh per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse, nell'intimo, / mai intendevano d'essere. Non è forse l'astuzia segreta / di questa terra che sa tacere, quand'essa sollecita gli / amanti così / che ogni cosa, ogni cosa s'esalta nel loro sentire?» R. M. Rilke, Elegie duinesi, trad. it. di Michele Ranchetti e Jutta Leskien, Feltrinelli, Milano, 2006

[5] «[…] e la poesia non l’é in gnessuna lengua / in gnessun logo – fursi- o l’é ’l busnar del fógo / che ’l fa screcolar tute le fonde / inte la gran laguna, inte la gran lacuna - / la é ’l pien e ’l vódo dela testa-tera / che tas, o zhigna e usma un pas pi in là / de quel che mai se podaràe dirse, far nostro», Andrea Zanzotto, Vecio parlar, in Id., Le poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 1999

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