Ovvero una silenziosa emarginazione.
“Vi informo che nella chiesa di Saint-Fiacre, durante la prima messa del giorno dei Morti, sarà commesso un delitto”.
È questo il testo di un biglietto recapitato al dipartimento di polizia di Parigi, nell’indifferenza quasi generale ma che suscita l’interesse di Maigret, il quale decide di occuparsene partendo per il piccolo paesino perso nella campagna francese e paese natale del commissario.
Più che il delitto, per altro di inconsueta dinamica, è il luogo il protagonista principale del romanzo, sdoppiato pagina dopo pagina tra quello vivo nel ricordo di Maigret e quello, affatto diverso, della realtà (mai avrebbe immaginato di ritrovare il paese dov’era nato in simili condizioni). Questa continua alternanza tra le sensazioni presenti e in qualche modo stranianti e i contenuti depositati nella memoria hanno l’effetto di indebolire l’acume investigativo di Maigret e metterlo piano piano in disparte, fin quasi a farlo scomparire dalla scena, incapace probabilmente di fare i conti con la mutevolezza delle cose, addirittura con la loro sgradevole decomposizione. A fronte di questo, il cadavere della contessa rimane deposto, immobile, non vegliato (non si usa più), incapace di dare interesse, come un simbolo volto a ricordare che se qualcosa non muta non ha vita.
Non che si facesse illusioni sugli uomini. Ma non poteva sopportare che infangassero i suoi ricordi d’infanzia! Soprattutto la contessa, che gli era sempre apparsa nobile e bella come il personaggio di un libro illustrato.
Da questa pastoia Maigret non riesce a uscire, tanto che occorrerà una sorta di nemesi per far procedere la trama e risolvere il delitto. Che tale per Maigret non è, nella misura in cui si configura piuttosto come un caso di coscienza, un nodo personale che va sciolto e per il quale prova una fatica fisica inusitata:
Stranamente Maigret aveva sonno. Si sentiva sfinito, come se avesse compiuto uno sforzo eccezionale. E non certo perché si era alzato alle cinque e mezzo del mattino o perché aveva freddo. Era l’atmosfera a opprimerlo. Il dramma lo aveva colpito personalmente, e si sentiva pieno di disgusto. […] Maigret si sentiva stremato, fisicamente e moralmente: quel caso lo stancava più di dieci inchieste normali.
La questione di fondo è da ricercare in una desolante dissoluzione morale che ha colpito il luogo, le persone (anche il piccolo chierichetto Ernest, nel quale Maigret si rivede bambino), l’aria, e contro la quale le armi solite del commissario sembrano non avere potere. Il commissario gira, perlustra i luoghi, ci permette di formarci una loro geografia precisissima che riguarda le strade e grazie ad esse la canonica, la chiesa, la locanda, la drogheria fino al castello, che domina con la sua ingombrante e pur decaduta austerità. Eppure è un movimento sbaragliato, inane, sottoposto al caso e all’emozione; assieme alla sua logica consueta e alla sua presenza infallibile, anche la giustizia manca il bersaglio.
«Lei mi scuserà, signor parroco, e anche lei, dottore, se vi faccio assistere a questo spettacolo immondo… Ma lo abbiamo già detto: la giustizia vera, quella dei tribunali, qui non c’entra… Non è vero, Maigret?»
C’è forse qualcosa di più immondo e di più ingiusto della violazione dei nostri ricordi?
Comments