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Il luogo incerto. Spazio vero e corpo crudo in A pelle scoperta di Francesca Piovesan





C’è una immagine che riassume e rappresenta A pelle scoperta, la raccolta di racconti di Francesca Piovesan, all’esordio editoriale per Arkadia editore. Margherita, una tra i tanti personaggi protagonisti di queste storie semiurbane incistate nella pianura veneta tra bar, case di cura, capannoni, azienducole e caselli autostradali, sta cercando una maschera elegante, per donna elegante, per festa elegante; lo fa rovistando in un cestone di quelli in cui la roba costa pochi euro, ne vale meno, ne rende di più; quei grossi cestoni metallici che stanno come isole di convenienza in mezzo ai corridoi di un megastore come tanti ne esistono in questa parte d’Italia in cui il grande da anni addenta, mastica e ingoia il piccolo, con mai dissimulato piacere e nullo timore di sentirselo andare di traverso. La trova, lucente e delicata, e la prova affidandosi al corpo per deciderne la bontà:


Il naso aveva cercato di assomigliare allo spazio vero del naso finto.

Perfetto. Se ci fosse bisogno di una citazione per il nostro tempo, per come esso viene sogguardato, interpretato e descritto dalla misurata scrittura di Francesca Piovesan, suggerirei questa frase. Che si tratti di un diciottenne costretto, un giorno alla settimana, a sopportare e superare senza tradire il disgusto il troppo abbondante menù preparatogli dalla nonna, o della coppia in crisi che passa l’ultimo week-end assieme, nella seconda casa in montagna, luogo patogeno (a voler considerare l’amore una malattia), prima della separazione; che sia in questione la reiterata apprensione materna riguardo alle scelte figliali o i tradimenti pensati, realizzati, negati; che si guardi a una grande voliera e a come farla entrare in una stanza, o a un piccolo costume che lascia scoperto il sedere, sempre in gioco in queste storie è il corpo umano, la sua misura, la sua durezza, e i modi in cui occupa lo spazio.


A interessare l’autrice non è il tema della maschera, il solito rimbrotto verso una società che ci spinge a mostrarci diversi da quello che in realtà siamo, saremmo. Questa, che pure viene accennata, rimane un’idea di superficie, appunto, di facciata. I racconti vogliono piuttosto accennare, procedendo come fanno per brevissime illuminazioni, ad altro, a un sentimento più profondo perché non ancora pacificatosi in alibi: la crudezza della carne, la sua assoluta realtà, soprattutto il suo non essere mai fuori posto.


In un altro racconto, il protagonista Mauro arrotonda nelle serate di venerdì e sabato il magro stipendio giornaliero lavorando in un bar, dove il venerdì c’è il karaoke. Quella sera il gruppo di persone che gestiscono la serata canora è in ritardo a causa di un incidente lungo la strada; quando arrivano sono ancora scossi, agitati, fuori centro per quello che hanno visto. L’orrore accade quando ciò che vediamo non è nel suo luogo naturale, un autobus dentro al fosso, alcune auto accartocciate, sangue sull’asfalto. L’orrore è per il disordine, non per il dolore, per la sofferenza.


La verità è che noi del nostro corpo non possiamo mai chiederci che cosa faccia qui, perché non sia altrove. Ma ancora non basta.

A fare da cornice alla raccolta ci sono due racconti in cui compaiono il cinema, come luogo d’incanto e fascinazione, e gli animali, come esseri viventi che fungono da controcanto e da surrogato di ciò che piace considerare umanità. Non è un caso. Nel cinema vediamo persone come noi, impegnate in storie come noi, ma rinchiuse nel loro recinto di finzione, prive di corpo reale, dimensionato[1]; negli animali vediamo corpi privi di destino. In mezzo, tra questi simboli del reale biologico e del simbolico, l’uomo si muove, sceglie, decide, vive e immagina, costruendosi altri mondi, altre vite, come temporanei outlet emotivi nei quali ricercare vestiti, cibi, dentifrici e creme.


Per i protagonisti di queste storie dietro a tutto c’è una profonda antinomia tra il corpo che si ha e il corpo che si è. Trapassare dall’una all’altra percezione, conquistare la verità del corpo, nelle sue evoluzioni, attraverso le sue vie di fuga, le recalcitranti risposte che dà all’ambiente, le perdite e le cadute che soffre: questo è il senso dei racconti di Francesca Piovesan, quasi tessere di un mosaico di formazione in cui l’obiettivo non è l’apprendimento degli strumenti logici e morali con cui muoversi nel mondo, ma la riscoperta di qualcosa di ancor più fondamentale, perché primitivo, primigenio: nel mondo arriviamo innanzitutto per occupare uno spazio vero e l’etica, cioè il modo in cui ci muoviamo in questo spazio, dipende da quanto siamo disposti a concederci, a quanta crudezza impariamo a riconoscerci.

[1] Viene in mente l’oltraggio di questa condizione nel film di Woody Allen, La rosa purpurea del Cairo.

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