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La prudenza e le sue allegorie. Tre raccolte, di Adelelmo Ruggieri

Aggiornamento: 29 dic 2020


Alcune note di lettura sull'ultimo libro di Adelelmo Ruggieri, una silloge che comprende ben tre raccolte di poesie scritte negli ultimi anni. Pubblica peQuod, nella collana Poesia.


Tre raccolte è l’ultimo libro di Adelelmo Ruggieri, che torna a pubblicare con peQuod dopo una plaquette edita in proprio nel 2017; è in effetti composto da tre raccolte distinte che contengono testi che vanno dal 2012 al 2020 (La casa sulla discesa: 2012-2016; In otto righe: 2016-2018; Silloge fantasma: 2018-2020).


Gli ultimi testi della terza raccolta addirittura testimoniano della pandemia e del lockdown di Marzo, con un effetto di realtà particolarmente straniante ed efficace. Riunire tre opere composte in tempi e condizioni diverse può sembrare insolito, soprattutto perché ciascuna silloge ha una sua identità specifica; ciononostante non manca unitarietà al libro e anzi pare esserci un unico lungo discorso che si articola e si dipana, scandito da tre momenti che interessano temi ben precisi: i luoghi, le persone, la parola.



La casa sulla discesa è una raccolta che dice ininterrottamente i luoghi. Si muove dapprima (Prima sezione, Rive, e Seconda sezione, Da una toponomastica esistenziale) entro due coordinate principali fornite dalle ambientazioni naturali, paesaggistiche, e da quelle urbane, antropizzate; mira quindi a una sorta di sintesi ancora più marcatamente biografica nella terza sezione, La casa sulla discesa, per poi collassare e aprirsi all’indefinito nella quarta, Digitale, in cui il luogo abbandona i contorni reali per farsi totalmente virtuale, stimolando una breve e quasi impossibile riflessione sulla scomparsa di ciò che già non appariva, le foto salvate in una chiavetta USB che si è rotta. La fredda mano del moderno indica, non più così lontana, la tomba dei nostri ricordi.

Di queste topografie poetiche conta mettere in luce la loro funzione di ancoraggio alla realtà. Indicare le zone dell’ambiente circostante, naturale o urbano, comune o personale; nominare le strade, le piazze, i quartieri; scandire i lavori che interessano la propria casa a seconda delle stagioni e delle piante; tutto concorre a dare concretezza all’esserci, aggrappandosi ai dati della realtà anche se ciò che ora appare si mostra come resto di ciò che c’era ed è andato distrutto.


Del palmizio regolare che era

Non è rimasto nulla, il punteruolo rosso

Ha distrutto tutto, restano solo tribù sparse

Di canne – così sensibili al vento, fui questo

A salvarle?

[…]


Tra via Monti, via Graffigna, via Gennari, il poeta costruisce uno stradario emotivo ed episodico che aiuti a tenere per un poco vividi i fantasmi del passato, mentre di ciascuno s’estingue / la tua ombra che ti avanza. È una fatica inane, una tracotanza che forse appartiene a una poesia che non è più praticabile. La soluzione potrebbe essere nella casa, intesa come deposito di pratiche e memorie, se è vero che perderla è perdersi:


Infrangersi

Andare via dalla nostra casa

Fu infrangersi per davvero

Sono fuori, c’è una grande luce

Poco fa l’ho capito per intero

È tutto celeste, sto raccogliendo

I pezzi, li ricompongo nel vero

Mi chiedo come sono adesso

So rispondere soltanto com’ero


*


In otto righe prosegue il dialogo tra i luoghi e la memorie (Edera e muro, Riva nel tempo, 21), anticipa la riflessione sulle capacità della parola poetica (Acufeni, Stazione), ma si concentra primariamente sulle persone, con le quali in molti testi il poeta accede a una sorta di dialogo a distanza, in virtù di un’esperienza condivisa, di un possibile ricordo di cui entrambi possano farsi custodi.


Per A.

Al susseguirsi in noi

Delle persone che siamo stati

Delle parole che abbiamo detto

Così tante, dei passi

Che abbiamo fatto insieme

Non si può fare fronte

Tutto ci ha modificato ogni volta

Ma tutto insieme si mostra

A te, a me, per come è stato realmente


Un dialogo non costante e onnipresente, che anzi scema mano a mano che la raccolta procede e si prefigura lo spettro della solitudine e della pensione, segnando una crisi dirompente e amara.


31.

Se tu fossi qui

Stanotte, a questo terrazzo

Con questa pioggia sottile

Dopo così tanta ondata di calore

E ci sono lampi in lontananza

Spezzano in due il buio

Se tu fossi qui, Egle

Mi ricomporrei, ma tu non ci sei


Pensionato d’agosto

[…] mi rimane, a quel che sembra, direbbe l’empirista, lo spassionato esercizio della ragione, mi rimane, aggiungo io, l’inazione, mi rimane l’arresto e lo stallo, l’inezia e l’inerzia, il blocco, l’impasse; non cambio, non fluttuo, non oscillo, sto fermo, sudo, m’asciugo, sono un pensionato, ci sono arrivato.


*


La terza raccolta è quella in cui il poeta da un lato si ancora maggiormente alle date, come in un tentativo di calendarizzare i propri umori, le sfide che l’ambiente getta e la mente raccoglie, la constatazione amara che l’età si sconta- si è già scontata, a singoli giorni; e dall’altro testimonia e rendiconta l’accettazione di una forma di sconfitta in ciò che, di regola, è proprio del poeta: la parola, la creazione di parole, la nominazione.


Undici marzo

Oggi c’è questo gran vento che ha pulito

Tutto, e chi se lo aspettava che pulisse

Tutto quanto, questo gran vento di oggi

Ma se guardo negli anni miei trascorsi

E son passati, so solo dirmi, Sono andati

Sul tempo che rimane faccio affidamento

E questo gran celeste di oggi mi è d’alimento


Uno sciame senza nido

Non riesco a tenere più niente a mente

La mia mente è uno sciame

Senza nido, nessuna parola si posa

Nulla fa sedimento, è l’età, certo

O la stanchezza di averne viste troppe

E non mi fido più, ma se guardo

Nel mio profondo non mi soverchia

Lo sfinimento, non sono ancora del tutto spento.


È una continua dialettica tra l’età giovanile, l’ora in cui si era ragazzi, e il tempo presente, che è con poco clamore ma indefettibilmente un tempo passante, e ristretto.


Da anziano

Da ragazzo, i giorni di vacanza

Mi bastava una strada sconosciuta

Un panino farcito, una fontanella

Da anziano l’ho perduta

Questa cosa limpida e minuta.


Un tempo che si compatta perché racchiude sempre più le voci che sono state e che sono ormai non più che suono, indefinibile, in continuo smarcamento dalla possibilità di afferrarlo e farlo ancora significare. Anche per questo, come si diceva prima, l’azione agonistica del poeta verso la parola è in difetto, allude già nel suo porsi alla inevitabile sconfitta, perché tutto accade nel presente / Ma il presente appena detto / È già passato – vento che strattona / Le foglie tra i muri di un cortile, a fare / Un mulinello; e questo passato, verso il quale la memoria può poco, può solo il farsi spettatrice in riva al mare e lasciarsi cullare dallo sciabordio delle cose di ieri, che giungono a lambire i piedi, con carezze delicate, piacevoli, indolori; questo passato, dicevo, è una sorta di logorata e impervia soffitta nei confronti della quale la parola poetica di Ruggieri si scansa e concede un po’ di ribalta alla prosa, come a mostrare che il male di (ri)vivere tocca ovunque le stesse corde:


Soffitta

Quando entrai nell’ampio spazio grezzo sul momento non chiamai con il suo nome ciò che vidi; purtroppo, o per fortuna, faccio fatica a dire all’istante il nome che hanno le cose che vedo; era tutto rovesciato, tele nere dappertutto. Allibito misi ordine come potei a quella rovina di oggetti […].


Additare, nominare, elencare sono azioni sempre più difficili, quasi autistiche, mentre tutto attorno e dentro si accumula e la luce s’infioca e la polvere guadagna spazio, lasciando all’ultima pioggia il compito di sciacquarla via, in un movimento naturale che sembra riportare tutto al livello minimo del bisogno.


«Giusto la polvere»

«Ha fatto due gocce stanotte

Giusto la polvere», dice il parente

Che arriva sempre meno spesso

Dalla campagna in città a trovarci

Per vedere come stiamo, per dirci

Come sta, e se non ci siamo

Lascia il sacchetto con l’insalata

E i pomodori rossi alla porta di casa.


Adelelmo Ruggieri, Tre raccolte

peQuod, Poesia

2020, €15,00



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