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Mattatoio n.5 e altre piccole fughe di Kurt Vonnegut

Nell'articolo, potrete trovare alcune considerazioni su Mattatoio n- 5 e, più in generale, su alcuni aspetti della scrittura e della poetica di Vonnegut.


Oh, a sleeping drunkard

Up in Central Park,

And a lion-hunter

In the jungle dark,

And a Chinese dentist,

And a British queen--

All fit together

In the same machine.

Nice, nice, very nice;

Nice, nice, very nice;

Nice, nice, very nice--

So many different people

In the same device[1].


Nel dicembre 1944 Vonnegut partecipò alla Campagna della Renania. Aveva 22 anni. Mentre si trovava dietro le linee nemiche venne catturato dalle truppe della Wehrmacht e fatto prigioniero. Passato un mese Vonnegut e gli altri prigionieri furono deportati in un campo di lavoro a Dresda; il nuovo luogo di prigionia era un ex mattatoio sotterraneo conosciuto dai soldati tedeschi come “Schlachthof Fünf” (Mattatoio Cinque). Fu proprio il fatto che si trovasse sottoterra a salvarli dal devastante bombardamento che le truppe americane inflissero alla città di Dresda, che causò migliaia di vittime.

Vonnegut e i compagni contribuirono a bonificare l'area nei giorni successivi.

Sul numero di vittime non c'è accordo. Inizialmente, la stima fu di 250000 morti, cifra riportata dallo stesso Vonnegut in una lettera (è riportata qui) a casa del 1945:


Il 14 febbraio circa arrivarono gli americani, seguiti dalla R.A.F., che con il loro lavoro congiunto uccisero 250.000 persone in ventiquattro ore e distrussero tutta Dresda, forse la città più bella del mondo. Ma non io.

In Mattatoio n. 5, la cifra scende a 135000.

In ogni caso, i numeri confermano l'idea dell'immensità della tragedia per come si è radicata nel ricordo di chi vi ha assistito, stante il fatto che la città, impreparata all'attacco e composta da numerosi edifici in legno, fu letteralmente annichilita per l'effetto combinato delle esplosioni e dei conseguenti diffusi incendi.

Una ricostruzione del dibattito si trova in questo articolo di Marco Pizzuti.


Mattatoio n. 5 è l'esito di una lunga riflessione letteraria di Vonnegut, che volle insistentemente e intensamente scrivere un libro sulla sua esperienza come testimone dell'evento e sopravvissuto all'evento; ma che dovette fronteggiare altrettanto a lungo l'incapacità di trovare una via narrativa soddisfacente. Il primo capitolo del libro dà conto di questo e altro circa la natura del romanzo e l’approccio del suo autore al materiale; rappresenta, sotto certi aspetti, una vera guida alla lettura del romanzo.


Il linguaggio di Vonnegut è ritmico, sincopato, generalmente colloquiale e scabro ma capace di sconfinare nel poetico; egli lo usa per meglio aderire al registro scelto come principale per i suoi lavori: quello del grottesco e della parodia. Solo attraverso questo specchio apparentemente deformante, è possibile rendere in modo preciso la realtà delle cose, dominata dalla più reale e vera deformazione, che è quella innanzitutto morale dell'uomo, spesso presentata assieme alla deriva della scienza verso i casi umani, in una sorta di generale alienazione. Il caos è la dominante nell’architettura del reale, e il romanziere da questa generale festa entropica cerca di desumere una ri-costruzione narrativa efficace.


In qualità di autore Vonnegut si è posto dall’inizio della carriera come un attento frequentatore della cosiddetta science fiction, sussunta però in una produzione che sta senza dubbio nella letteratura maggiore e dove è presente fin da subito quella componente di simbolismo che rimane una costante della sua narrativa, e che intercetta ogni aspetto della narrazione, compresi i nomi dei personaggi (esempi: Paul Proteus, in Piano meccanico, Malachi Constant in Le sirene di Titano, Billy Pilgrim in Mattatoio n. 5 e così via).


Lo sguardo di Vonnegut è quello di chi, dopo aver vissuto e visto cose imponderabili e gravi, si tiene distante dal giudizio, preferendo una generale disponibilità alla comprensione. Emotiva almeno, se non intellettuale.


E alla moglie di Lot, naturalmente, fu detto di non voltarsi indietro a guardare il luogo dove prima c'era tutta quella gente con le sue case. Lei invece si voltò, e per questo io le voglio bene:; perché fu un gesto profondamente umano.

È una posizione esistenziale che viene, all'autore, sia dalla sensibilità narrativa, sia dai propri studi; così racconta:


Certe volte penso ai miei studi. Per un po', dopo la Seconda guerra mondiale, frequentai l'Università di Chicago. Ero iscritto alla facoltà di Antropologia. A quell'epoca insegnavano che tra gli esseri umani non c'era proprio nessuna differenza. Può darsi che lo insegnino ancora oggi. Un'altra cosa che insegnavano era che nessuno era ridicolo o cattivo o disgustoso. Poco prima di morire mio padre mi disse: "Sai? Tu non hai mai scritto un racconto in cui ci fosse un cattivo". Gli dissi che questa era una delle cose che avevo imparato all'università dopo la guerra.

E che lo porta a una considerazione che è ad un tempo disincantata, igienica e poetica:


È così breve, confuso e stonato [scil. il libro], caro Sam, perché non c'è nulla di intelligente da dire su un massacro. Si suppone che tutti siano morti, e non abbiano più niente da dire o da pretendere. Dopo un massacro tutto dovrebbe tacere, e infatti tutto tace, sempre, tranne gli uccelli. E gli uccelli cosa dicono? Tutto quello che c'è da dire su un massacro, cose come "Puu-tii-uiit?".

Un altro elemento ricorrente nell'opera di Vonnegut e che in Mattatoio n. 5 agisce lungo l'intero racconto, è quello della vita e della realtà interpretate come gioco dominato dall'esterno, da forze quali il caso o il destino. Le avventure di Pilgrim sembrano a tratti incredibili nella loro successione e nell'esito che sempre lo vedono uscire non tanto vincitore, ma sicuramente vivo: l'incidente aereo, il rastrellamento, il campo di lavoro, il bombardamento...


Ancora una volta, la cifra perfetta per decodificare questo romanzo picaresco è la parodia.

Non soltanto Billy Pilgrim è un antieroe in stile donchisciottesco, ma è anche una sorta di divinità (un’altra possibilità del dio incarnato dei cristiani), perché possiede la conoscenza del passato e del futuro, estasi temporali nelle quali può muoversi in frequenti momenti di catalessi.

Questi viaggi nel tempo sono a ben vedere fughe dall’insensata fissità terrestre, per cui il presente è una sorta di gabbia; spesso la fuga è una soluzione per i personaggi/non personaggi di Vonnegut, anche nella sua narrativa breve, addirittura a cominciare dal suo racconto d’esordio, Relazione sull’effetto Barnhouse, dove Barnhouse, potenziale cavia per i generali americani, fugge e si nasconde, decidendo di vivere una vita da traditore, ma con lo scopo di lavorare per la pace distruggendo ogni arma.

Le fughe di Pilgrim gli consentono di sapere perfino l'esatta data e le circostanze della propria morte - perché l'ha già "vista" – e di decidere di non fare alcunché per evitarla; del resto, nella superiore concezione dei Tralfamadoriani - gli alieni che lo hanno rapito e trattenuto nel loro pianeta per anni, anche se il tempo sulla terra si è mosso solo di un nanosecondo - lo scorrere del tempo è fittizio, e la morte di questo organismo in questo istante non vuol dire niente perché è contemporaneamente vivo altrove, in altri tempi.



Brano che va letto illuminato da quanto scritto all'inizio del libro, quando è ancora l'autore a parlare:


Non c'era niente da fare. Come abitante della Terra, dovevo credere a tutto quello che dicevano gli orologi... e i calendari.

Sulla terra, quella fuori di noi e nella quale noi siamo e stiamo, il tempo, artificio intellettuale che abbiamo creato noi per capirci qualcosa, ha preso di colpo a comandarci in modo inoppugnabile. Nella realtà parallela di cui la creazione narrativa è un aspetto, e sostanzioso, le cose possono andare diversamente, lasciandoci una generale sensazione di liberazione se non di libertà.





Rispetto a questo aspetto, Mattatoio n. 5 riserva gradite e utili sorprese a quel lettore che lo avvicini come si trattasse di un manuale di scrittura. Sono disseminate ovunque considerazioni che, sollevate dall'ambito diegetico in cui sono espresse, valgono anche per altro, più generale. Vonnegut è stato un attento studioso dell’arte del costruire racconti, e in rete si trovano materiali utili, divertenti e chiari, come questo estratto da una lezione sulla forma delle storie, sul modo in cui esse, attraverso i loro attanti, si dispiegano nel tempo del racconto.


Sul tempo:


"Come... Come ho fatto ad arrivare qui?
"Ci vorrebbe un altro terrestre per spiegarglielo. I terrestri sono bravissimi a spiegare le cose, a dire perché questo fatto è strutturato in questo modo, o come si possono evitare altri eventi. Io sono un tralfamadoriano, e vedo tutto il tempo come lei potrebbe vedere un tratto delle Montagne Rocciose. Tutto il tempo è tutto il tempo. Non cambia. Non si presta ad avvertimenti o spiegazioni. È, e basta. Lo prenda momento per momento, e vedrà che siamo tutti, come ho detto prima, insetti nell'ambra".

E sui personaggi:


Aveva due pentoloni pieni di minestra per gli americani. La minestra bolliva sul gas, tenuto basso. Aveva pronte anche parecchie forme di pane nero.
Domandò a Gluk se non era troppo giovane per essere sotto le armi, Lui disse di sì.
Domandò a Edgar Derby se non era troppo vecchio per essere sotto le armi. Lui disse di sì.
Domandò a Billy Pilgrim cosa diavolo era, Billy disse che non lo sapeva. Stava solo cercando di tenersi caldo.
“Tutti i veri soldati sono morti” disse la donna. Ed era vero. Così va la vita.
[…]
Quasi non ci sono personaggi in questa storia e quasi non ci sono confronti drammatici, perché la maggior parte degli individui che vi figurano sono malridotti, sono solo trastulli indifferenti in mano a forze immense. Uno dei principali effetti della guerra è, in fondo, che la gente è scoraggiata dal farsi personaggio. Ma il vecchio Derby diventò personaggio in quel momento. La sua posa era quella di un pugile ubriaco di pugni. Aveva la testa chinata. I pugni erano tesi, in attesa di istruzioni e piani di battaglia.

Come scriveva Joan Didion, ci raccontiamo storie per vivere. Altrettanto, e da sempre, almeno da quando i primi cacciatori tornavano nella caverna dopo aver ammazzato l'animale e scampato i relativi pericoli, raccontiamo storie per aiutare gli altri a vivere.

E per vivere, un tentativo di introspezione - che non è mai spiegazione - della natura umana è fondamentale, pur nelle (o forse: grazie alle) diverse modalità di racconto. Nel periodo che stiamo vivendo, il continente della letteratura è colonizzato in prevalenza da pochi generi: da un lato, la tendenza è verso la memorialistica, l’autofiction (nelle sue varie declinazioni), il finto autobiografismo; dall’altro, lo sguardo del narratore va – per ragioni che sono simili ma non identiche, e che hanno però sempre a che fare con l’epidemia che ha colpito l’immaginario – al passato, soprattutto e ancora novecentesco, dove situare cose e persone con la tranquillità di un fondale solido, realistico perché avvenuto e non solo verosimile perché creato.


Mattatoio n. 5, pubblicato nel 1969, è, anche per questo nostro stato delle cose narrative, un libro da rileggere, con l’attenzione, la disponibilità e l’avidità intellettuale con la quale ci si approcciava al convivio in epoca greco-romana, dove, come dice Plutarco nelle sue Questioni conviviali, non ci si riunisce per mangiare e bere, ma per mangiare e bere insieme, e dove non si mette in condivisione solo il cibo e il vino, ma la parola, che si fa discussione e dialogo.


[1] Oh un ubriacone addormentato, / su a Central Park/ e un cacciatore di leoni / nel buio della giungla / e un dentista cinese / e una regina britannica-- / tutti messi per benino / nella stessa macchina. / Bello, bello, davvero bello; bello, bello, davvero bello; bello, bello, davvero bello-- / Così tante diverse persone / nel medesimo congegno.

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