Con Nero Lucano, il nuovo romanzo di Piera Carlomagno da poco uscito per Solferino, torniamo a Matera e ci riaccodiamo in scia alla motocicletta di Viola Guarino, la patologa forense con il vizio dell'investigazione e l'intuito della risolutrice di misteri già protagonista di Una favolosa estate di morte (recensione qui).
Caratteristiche, quelle di Viola, che la mettono in una condizione che genera attrito, tensione, in un mondo che è ad un tempo dominato dalle figure maschili e solido, se non bloccato, nella divisione dei compiti e nelle gerarchie d'azione e comando. Un mondo tecnico e procedurale, infine, nel quale a fatica trova posto ed espansione ciò che rende unica Viola Guarino: l'intuito, come detto, la libertà d'azione, l'eccentricità.
Ora era il momento del lavoro vero, non doveva dimenticare mai di essere una patologa forense, una consulente della Procura e non un'investigatrice. Nessuno le avrebbe mai riconosciuto il suo intuito formidabile, e nemmeno la soluzione di un caso, ma chiunque sarebbe stato pronto a rinfacciarle un errore, anche banale, sul tavolo anatomico.
È su questo tavolo che, in un piovoso e freddo inverno che avvolge e imbottisce la provincia di Matera, finiscono tre cadaveri in successione, tutti uomini, uniti dalla stessa tragica sorte: morti di morte violenta, violentissima, che si spalanca di fronte agli occhi degli inquirenti in tutto l'orrore provocato da una mano omicida che si vuole crudele, efferata, e che riversa il proprio bisogno di colpire sul corpo delle vittime fino a lasciarlo, massacrato, al centro della scena, una sorta di pianeta attorno al quale gravitano come piccoli o grandi satelliti, altri fatti di sangue, siano essi crimini irrisolti o grandi passioni non sopite.
Quello che emerge presto e con chiarezza è infatti che la mano è unica e che le vittime sono legate da qualcosa di profondo, che la contiguità geografica, per altro estemporanea, non basta certo a giustificare. La sfida investigativa è allora quella di sbrogliare una matassa che si presenta davvero ingarbugliata, non solo per la differenza sociale dei personaggi in campo, ma anche per la difficoltà a tracciare e definire da un lato i contorni temporali della storia, e dall'altro le reali connessioni tra chi è morto e chi, ancora vivo, si nasconde oppure mescola le proprie confessioni tra giri retorici, parentesi omertose, memorie ondivaghe.
Il viaggio di Viola è infatti e anzitutto un tentativo privo di pause di congiungere in un ordito significativo quanto i vari personaggi ricordano e dicono, le porzioni di realtà che i loro racconti possono illuminare; cosa non semplice perché nella pregevole costruzione narrativa dell'autrice ciascun personaggio sembra avere un rapporto non pacificato con la linea temporale.
Se prendiamo ad esempio Brando Carbone, ingegnere di successo e primo ad essere rinvenuto privo di vita, l'indagine di Viola Guarino e degli altri inquirenti si deve destreggiare tra vari soggetti-supposti-sapere: i paesani contadini, che mescolano poche parole mormorate nelle strettoie del loro dialetto ai molti silenzi di chi non si vuole immischiare; il barista amico di Viola che semina, quasi per caso, indizi importanti in chiacchiere leggere; un gruppo di donne, amiche e amanti del bridge, depositario di importanti conoscenze di un passato lontano dal quale i ricordi provengono per successive e parziali illuminazioni, a volte contraddittorie, mai definitive, eppure preziose; l'assistente e amante di Carbone, l'ingegnere Lia Guidi, che conosce il presente e procede per vaghe confessioni e travisamenti; la moglie di Carbone, Leda Montessori, donna bellissima e misteriosa, che invece pare ignorare tutto, perfino sé stessa, complice una malattia che l'ha ottenebrata e dalla quale, forse, sta guarendo.
«Lo sa, dottor Ferrara, che io non sto proprio bene?»
«Cos'ha, signora?»
«Non ricordo. Io dimentico, meglio, dimentico tutto ciò che mi fa male. Brando sapeva di non poter contare su di me, perché per me i problemi si moltiplicano, tutto diventa subito importante, scopro paesaggi disumani che altri non vedono, mi destano albe spaventose, mi affliggono tramonti crudeli. Fatico a svegliarmi e mi struggo per addormentarmi. Rimpiango sale fumose in cui mi fu spiegata la vita.»
In mezzo a questo sbilanciamento di saperi la ricerca prosegue ed è soprattutto Viola a non desistere e a cercare di recuperare un senso e una verità plausibile e onesta.
Ancora conta sottolineare, come una cifra imprescindibile del romanzo, l'amalgama di personaggi, azione e descrizione, che si appoggia in modo sostanziale e proficuo alla unicità della geografia lucana, fatta di improvvisi chiaroscuri, di voragini dispersive e grotte accoglienti, di lucori petrosi e di cieli gonfi e tumultuosi, di viuzze nascoste e silenti, e di spiazzi colorati e saettanti, attraversati da onde di persone in festa; tanto che non si corrono rischi nel ripetere che i neri di Piera Carlomagno partono dalla perlustrazione della (e adesione alla) orografia lucana per concludersi nella speleologia delle anime inquiete che calcano e vivono quei luoghi. Personaggi che contano, tra i moltissimi vinti che rinfocolano nella mente di chi legge i non cristiani descritti da Carlo Levi (a cui si fa esplicito omaggio nel romanzo), i pochi potenti, baroni mai stanchi di sfruttare il territorio e piegarlo ai fini dell'inesausta libidine d'arricchimento.
Viola guardava il paesaggio dei Sassi e la luce sinistra che gettavano sulle poche figure nere che li abitavano. Pensò che il male maggiore della Basilicata restavano i potenti vuoti, istrioni capaci di tenere in scacco un'intera regione senza un valido motivo, guru della politica e delle professioni, discendenti della borghesia fondiaria e del pensiero feudale, signori di un universo sorpassato, che hanno tutto l'interesse a mantenere tale.
Rispetto al romanzo precedente, Viola Guarino si mostra più contrastata, meno sicura di sé e delle sue capacità; e pur essendo percepita dagli altri - la gente comune, i colleghi, i superiori, le persone a vario titolo coinvolte nell'indagine - come cosa estranea, il lettore si fa facilmente sedurre dalla sua personalità stratificata, tesa tra due estremi che sono anche due poli contrastanti: la sicurezza nel lavoro che le viene da un formidabile e attentissimo intuito, da una parte, e la precarietà nelle relazioni umane, in cui il bisogno di un rifugio, l'ipotesi di una pacificazione, vengono negati da un istinto ferino di fuga, che agisce al primo apparire di quella possibilità.
Con uno stile ancora più avvolgente, e una prosa ricercata e a tratti lirica, al di là di ogni altro rilievo, Nero lucano conferma a chi già aveva letto il precedente romanzo di Piera Carlomagno un aspetto duplice ed essenziale: l'efficacia imprescindibile per il noir contemporaneo di un'ambientazione forte, che sia anche capace, a volte, di aggettare sui personaggi e sulle vicende col suo carico di storia e con la sua assoluta diversità; e l'importanza di un numero di personaggi ricorrenti (possiamo dirlo anche in attesa di ulteriori sviluppi) e ben delineati: la nonna Mariarìt, cummà Menghina, di cui riecheggia il continuo amorevole rimbrotto alla nipote che è tanto stretto e chiuso quanto alte e incontenibili sono le lamentazioni funebri per le quali viene assoldata; il nonno Ottorino, il farmacista del paese, in grado di affiancare ai ritrovati della scienza, le proprie segrete preparazioni, pozioni alle quali i concittadini fanno ricorso per curare insonnie, febbri, malumori, dolori e anche apparenti e poco virili défaillance; il sostituto procuratore Loris Ferrara, che si avvicina e si allontana ritmando le nostalgie e i desideri di Viola; una vera topografia umana, nella quale i tre fanno da vertici alla costante e indispensabile triangolazione di cui la protagonista ha bisogno per evitare che nel suo ininterrotto viaggio tra il sangue dei vivi e le voci dei morti possa perdere la via.
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