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Non esitare, edita

Riflessione breve sul perché a volte serve cancellare una frase con la penna rossa.



In un racconto di Philip Ó Ceallaigh, intitolato Nel quartiere [1], uno dei personaggi, Alex, lavora come editor. In un viaggio in treno si accorge che nessuno legge, tranne una passeggera, immersa in un quotidiano. Sul retro del giornale, Alex legge la notizia della scimmia più intelligente del mondo: sa circa duecento parole ed è capace di ordinarsi cose da bere premendo dei tasti. Alex pensa che se le insegnassero qualche parola in più, lui rischierebbe il suo lavoro.

Più avanti nel racconto Alex è in ufficio e fa una riflessione che rappresenta, di fatto, una lezione sullo scrivere:

E non era mica vera la storia della scimmia. Il lavoro di Alex era abbastanza al sicuro. Il mondo era pieno di scimmie che avevano imparato moltissime parole. Ma quanto è facile sbagliare a sceglierle, le parole? Quando scendono giù lisce, le parole giuste e il giusto numero, non fai tanto attenzione alle parole stesse, quanto all’effetto che fanno. L’essenza magica si sprigiona dalla sostanza ed è come se suonasse una musica. Eppure, quando lo strumento è mal accordato e il ballerino inciampa ti rendi subito conto di quante maniere ci siano per sbagliare. Quanto a odontoiatria e fognature andiamo alla grande, ma nell’uso del linguaggio e per altri aspetti cruciali della civilizzazione la razza umana è ancora intrappolata nella melma, piede sull’acceleratore e ruote che schizzano fango. Alex scandagliò il testo sulla sua scrivania. In rispetto alla disposizione della rilevante e applicabile legislazione vigente… Era il maestro della penna rossa e del tasto CANC; segnò tutto con una lunga linea rossa e riscrisse: Secondo la legge… Spendeva le sue giornate barcamenandosi fra le verbosità, tagliando ridondanze, detonando le fondamenta di frasi mal concepite, recuperando il senso e riassemblando ogni mattoncino di significato, cosicché il testo potesse esser letto, se non con piacere, almeno senza provare dolore[2].

Le parole hanno un loro ritmo, un incedere proprio come di danza, un ordine, una misura.


Le metafore usate nel racconto ce lo indicano: la musica, lo strumento accordato, il ballerino. Anche l’odontoiatria e le fognature non sono da meno; l’uomo pratico vede un ordine che va (ri)stabilito nei denti, un flusso che va garantito nella defluizione delle acque e degli altri liquami di scarto. Così vale per le lettere in una parola, le parole in una frase, le frasi nel periodo e i periodi nel paragrafo. Ordine e scorrevolezza. Canini e sciacquoni. È una forma di rispetto. Per la lingua, sia detto per ipostatizzare un tanto, e per l’ascoltatore.


Ché così, anche qualora le parole ci stiano fregando, almeno non ci risulterebbe doloroso. Lo sapeva bene il Ferrer personaggio manzoniano, che blandì con gli inganni di un discorso ben costruito e la notevole astuzia di linguaggio la folla, che non aveva i mezzi per capire.

Ecco, per stare agli sposi più noti delle nostre cerimonie letterarie, nella scrittura vale il motto ormai proverbiale che Ferrer rivolge al suo cocchiere, mentre trapassano la folla urlante e a stento trattenuta: Pedro, adelante con juicio.




[1] Philip Ó Ceallaigh, Appunti da un bordello turco, trad. it. di Stefano Friani, Roma, Racconti Edizioni, 2016, pp. 11-85

[2] Philip Ó Ceallaigh, Op. cit., p. 25





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