Sono passati circa venticinque anni dalla prima lettura, al liceo, di Due di due, un romanzo di Andrea De Carlo, pubblicato una manciata di anni prima per Mondadori (1989) e divenuto subito un best seller. La mia copia era in edizione super economica, apparteneva alla collana I Miti: libri tascabili con le pagine di carta riciclata e stampati in caratteri piccolissimi; costo: cinquemilanovecento lire. Ero arrivato a Due di due indirettamente: era uno dei romanzi citati in un libro che il professore di italiano ci aveva fatto leggere, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, esordio di un giovane scrittore bolognese di nome Enrico Brizzi. Jack Frusciante mi era piaciuto, ma Due di due fu tutt’altro, un’esperienza ben più immersiva, sognante, uno scossone.
Guido Laremi fu il responsabile, il colpevole, dei miei primi tentativi di scrittura. Ricordo di aver prodotto varie cartelle sulla falsariga del romanzo, o di quello che mi era rimasto addosso del romanzo, mescolato alle mie personali e piccole quotidiane ribellioni, di aver salvato tutto in un floppy e di essere corso a casa di una mia cugina per farlo stampare. Ricordo ancora il rumore fastidioso della stampante ad aghi e il lento movimento di fogli che si depositavano l’uno sopra l’altro. Ho ancora ben chiaro il tono dell’incipit, la soddisfazione quando l’avevo fatto leggere a una mia compagna di classe, la sensazione nuova che la scrittura potesse dare uno spessore diverso, più vivo, più reale, ai miei stati d’animo.
Rileggerlo mi ha messo davanti, ancora una volta, ad alcune verità che mi riguardano nei rapporti con i libri. Dopo aver voltato l’ultima pagina ed essere uscito dal cosiddetto universo narrativo, è ben poco quello che rimane. Della trama, dello stile, dei personaggi sono maggiori i dettagli persi di quelli ricordati e, tra questi ultimi, molto è confuso, se non addirittura inautentico. È più un’atmosfera, una vaga e avvolgente foschia narrativa salita a coprire quel campo di battaglia che ogni lettura è.
Negli anni, quando mi capitava di pensare a Due di due, immaginavo e raccontavo uno spazio segnato da tre coordinate principali: l’amicizia, il male di vivere, la comune. Non che fosse sbagliato: sono temi presenti e forti che vengono articolati e che strutturano il testo; ma mi sono reso conto che rispetto al senso che ha avuto per me il romanzo, queste coordinate sono state essenziali per costruire un’immagine ragionevole e fittizia di un testo plausibile, lontano da quello che avevo letto e che avevo lasciato sedimentare. Quei temi sono stati scelti inconsciamente come valide motivazioni per cui il libro mi era piaciuto. È ad essi che mi sono legato e Due di due è diventato l’immagine che ho così costruito.
Ci sono libri che provocano delle scollature, incidono alcuni luoghi del cuore perché in futuro possano facilmente accadere degli slittamenti: di parole, di voci, di sguardi. Luoghi di inciampo e caduta. Luoghi di epifania.
Ci sono libri che al di là della loro qualità, di cui solo il tempo permetterà una onesta delimitazione, ci aiutano a fraintenderci, spostandoci di giorno in giorno dal luogo che occupiamo, un passo più in là, inconsapevoli di quello che avremmo potuto dire.
Due di due mi ha aiutato a capire che l’essere si dice in molti modi, che un parricidio può essere inevitabile ma estenuante e lasciare questioni irrisolte; mi ha mostrato come nelle relazioni umane ci sia prima di tutto un famelico gioco di finzioni a perpetuare l’idea che ciascuno ha di come e quanto le cose dovrebbero andare, e di dove siano i fuochi, e di quale piatto pesi di più; ha alluso, per prima, che il sapere non è la verità, ma un suo rispettabile infingimento.
Rileggerlo, dopo un quarto di secolo, mi ha anche messo di fronte al fatto che di certi libri è impossibile scrivere una recensione, o delle note critiche, senza rischiare il collasso; sarebbe come togliere un barattolo alla base di una piramide. Può andarti bene, ma puoi far cadere tutto.
Andrea De Carlo, Due di due
La nave di Teseo,
2019, € 20,00
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