Ovvero una silenziosa emarginazione.
Platone derivava la sua critica alla polis (parla propriamente di città malata) dalle riflessioni e dalle analisi contenute nelle opere di Tucidide, il grade storico e cronista della tragedia ateniese. Questi mostrava come Atene fosse diventata una città tiranna, basando le proprie prosperità e pace sulla vessazione imperialistica delle comunità assoggettate. Nella sua lettura, il concetto ateniese di democrazia assume i caratteri di una mistificazione che nasconde una ben diversa indole volta all’aggressione e al dominio, frutto di due istinti umani ineludibili così definiti da Tucidide: da un lato la pleonexia, ovvero la bramosia di avere sempre di più, e dall’altro la philotimia, ovvero la brama di successo e di potere assoluto. Trasimaco, uno degli interlocutori di Socrate nella Repubblica, espone in modo rigoroso questa teoria e sostiene che le leggi che ciascun governo emana sono finalizzate al proprio utile; chi ha la forza comanda e determina cosa è giusto.
Pur condividendo gli assunti dello storico ateniese, Platone arrivava a dire che l’anima dell’uomo non è immodificabile ma può essere modellata attraverso l’educazione. Non al modo di Socrate, il suo maestro, vittima dell’inane desiderio di rendere migliore la città interrogando maieuticamente ciascun cittadino, ma intervenendo direttamente sulla gestione della città, dandole dei governanti capaci di guarirla attraverso un impiego saggio del potere, e rifuggendo così dall’impianto demagogico fino ad allora sostenuto e attuato dai governanti ateniesi.
Come ci ha insegnato Hobbes, lo stato è la moltitudine di persone che hanno ceduto parte della propria libertà in cambio di maggior sicurezza, delegando a una persona (il monarca o l’assemblea) il compito di governare. Alla base di questo patto che interessa ciascuno c’è dunque una rinuncia. Similmente ci avvertiva Freud che l’accesso alla civiltà ha comportato per l’essere umano la frustrazione della sua libido e della sua aggressività, salvaguardando in questo modo ciascuno dallo scontro e dalla guerra con gli altri.
Se allora il costituirsi della civiltà porta ordine, organizzazione, legge laddove ci sarebbe solo caos e guerra fratricida, è altrettanto vero, tornando a Platone, che si tratta di una maschera esteriore messa a copertura della ferocia che sostanzia in profondità l’uomo e che deve allora trovare altre vie di espressione. Nascono da qui, ad esempio, le malefiche teorie del complotto, le corporazioni segrete e parallele, le creazioni di nemici pubblici (i diversi) verso cui canalizzare l’odio e così via.
Di questo meccanismo – di cui per altro non mancano esemplificazioni nella cronaca quotidiana, politica e non – offre un’interessante rappresentazione la vicenda narrata da Simenon in Il piccolo libraio di Archangelsk (Adelphi, 172 pp.)
La storia è ambientata in un piccolo paese della provincia del Berry. Jonas Milik è un libraio di origini russe e cittadino francese che gestisce il suo negozio che affaccia sulla Place du Vieux-Marché, come le molte altre botteghe che
“addossate l’una all’altra, contornavano il mercato, coperto da una tettoia di ardesia e circondato da un canale di scolo ingombro di gabbie vuote e cassette sfondate, arance marce e segatura calpestata.”
La piazza è il centro del paese, fervente di attività nei tre giorni della settimana in cui si tiene il mercato, preda dei giochi dei bambini e delle chiacchiere degli adulti negli altri, silenziosa e quasi sospesa nelle ore notturne.
Place du Vieux-Marché, così rumorosa al mattino, la sera diventava molto tranquilla: tutt’al più passava qualche macchina in rue de Bourges, a oltre cento metri di distanza, e di tanto in tanto una madre chiamava dall’uscio i figli che si attardavano sotto la grande tettoia d’ardesia.
In un simile microcosmo tutti si conoscono, si salutano chiamandosi per nome e dandosi del tu, anche se
Jonas non aveva mai capito perché Le Bouc e gli altri della piazza gli dessero del lei, quando tra loro usavano pressoché tutti il tu e il nome di battesimo. Non lo chiamavano neanche Milk, però, come se non fosse il suo cognome, e nemmeno «signor Milk», ma quasi sempre «signor Jonas».
C’è un’insuperabile diversità a dividere il libraio dagli altri abitanti della piazza, un’estraneità di fondo che emergerà in modo formidabile nel corso del racconto. Il quale vive di un doppio mistero: da un lato la scomparsa della moglie di Jonas – Gina Palestri, di diciotto anni più giovane, che abbandona casa portandosi dietro i francobolli più preziosi di Jonas; dall’altro la bugia che Jonas, immotivatamente, inizia a raccontare a chiunque gli chieda della moglie – è andata a Bourges.
Mentre i giorni passano lentissimi, scanditi dai pensieri di Jonas, dai suoi dubbi, dalla sua maniacale decisione di mantenere le abitudini consuete come se non fosse successo alcunché e da una assenza di fatti pari solo alla scarsità di introiti che Jonas ricava dal suo lavoro, nell’ombra ogni compaesano inizia a farsi la propria idea su quel fatto ormai sulla bocca di tutti; e in breve le idee coincidono, le voci si uniscono e si fanno tutte eco di un’unica opinione, chiarissima eppure silenziosa, nascosta dietro un silenzio atterrente.
Ne fu ferito ancor più che spaventato. Erano ingiusti nei suoi confronti, e lui non lo meritava. […] Perché il loro silenzio era ostile, su questo non c’erano dubbi. Avrebbe preferito ingiurie e fischi. Gli sarebbe toccato invece, sopportare quel silenzio per parecchi giorni, durante i quali visse come in un mondo a parte.
Fino a che, solo coi suoi pensieri, coi francobolli rimasti a raccontare storie e biografie che nessuno vuole ascoltare, coi libri che nessuno chiede più in lettura, questo piccolo uomo d’altrove (così appunto recita il titolo originale: Le petit homme d’Archangelsk) sembra accogliere una modesta e ineludibile verità:
Ora aveva aperto gli occhi, e certi particolari ai quali non aveva dato importanza gli ritornavano alla memoria. Si rendeva conto, finalmente, di essere uno straniero, un ebreo, un solitario, un uomo venuto dall’altro capo del mondo per annidarsi come un parassita nella carne del Vieux-Marché.
È contro tale parassita che i popolani si coalizzano, tacitamente, senza strilli, subdolamente, irritati dall’umiltà e dai segreti di un uomo sempre silenzioso, mansueto, distante dietro le spesse lenti dei suoi occhiali, addirittura perverso secondo la moglie. Al di sotto della facciata di ossequiosa cordialità, il vero uomo mostra la sua natura aggressiva e attacca chi ha attentato alla salute della comunità.
Appoggiati al bancone del piccolo caffè di Fernand, quasi tutto a vetrate, all’angolo dell’impasse des Trois-Rois, c’erano cinque o sei clienti. In quel momento non era importante chi fossero, ma lo sarebbe diventato in seguito, e Jonas Milk si sarebbe sforzato di collocare ogni volto al suo posto.
È a questa implicita promessa, che leggiamo nelle prime righe del romanzo, che Jonas tiene fede fino alla fine e in osservanza a quanto ha sempre fatto in vita, con riguardo ai francobolli e ai libri e fino a che anche l’ultimo volto, quello di Gina, non trova la sua definitiva collocazione.
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