Le vicende narrate nel romanzo di Matteo Strukul accadono in un breve arco di tempo, cinque anni, centrale per la storia religiosa e non solo, europea e italiana in particolare.
A fare da cornice, ci sono due eventi capitali: la stesura e la pubblicazione delle famose 95 tesi sulle indulgenze, da parte di Martin Lutero, nel 1517; il Concilio ecumenico di Trento, aperto quasi forzatamente da papa Paolo III nel 1545 e poi riconvocato da Giulio III prima e da Paolo IV dopo, sotto il cui pontificato il concilio si chiuderà nel 1563.
Sono entrambi momenti di svolta. Il primo apre un profondo squarcio all’interno della chiesa cattolica aprendo la strada alla riforma che nel 1530 sarebbe stata sistemata teologicamente da Filippo Melantone, nel 1530. L’altro, mostra il tentativo da parte dei cattolici di reagire allo scossone intervenendo in maniera decisa per riaffermare la propria forza e la coerenza di una confessione e di un sistema di valori ma ancor più di autorità.
Nella Roma del 1542 raccontata da Strukul si muovono alcune grandi personalità del tempo e altri personaggi minori d’invenzione, attorno ai quali ruota gran parte dell’intreccio narrativo. I luminosi e riccamente decorati palazzi papali, la prodigiosa teologia visiva della Cappella Sistina non ancora oggetto dell’intervento di Braghettone, si alternano ai modesti ambienti domestici, alle vinose concertazioni delle locande e delle osterie, al clamore dei vari mercati, non ultimo quello in Campo de’ Fiori, luogo tristemente noto per le esecuzioni capitali degli eretici.
Ne escono ritratti interessanti. A partire proprio da Paolo III, di cui nel romanzo di Strukul viene messa bene in luce soprattutto la sua disponibilità a trovare una via conciliativa tra l’intransigenza del cardinale Carafa, che di lì a una decina d’anni assurgerà allo stesso soglio col nome di Paolo IV, proprio in esplicito omaggio al suo predecessore, e l’irenismo accondiscendente del cardinale e arcivescovo Reginald Pole e della frangia spirituale di cui si faceva portavoce. Tale immagine del pontefice acquista nella vicenda un peso pari a quello dell’ammirata protezione che il pontefice garantisce a Michelangelo, verso il quale egli nutre una stima incondizionata che lo porta a nominarlo sovrintendente ai lavori della Basilica di San Pietro e a commissionargli la realizzazione della Piazza del Campidoglio.
Precisa è la ricostruzione del cardinale Gian Piero Carafa, mente e anima del Santo Uffizio, futuro Paolo IV e ideatore tra l’altro dell’Indice dei libri proibiti. Di questo personaggio storico importantissimo, l’autore non manca di usare e mettere in scena la crudele astuzia, la dedizione alla missione evangelica, l’odio nei confronti dell’avversario Pole e la maligna sopportazione che è costretto a tributare a Michelangelo Buonarroti, del quale aveva aspramente criticato le nudità presenti nel Giudizio Universale.
Il romanzo si incentra, come prevedibile, sulla figura di questo grande artista, toscano di nascita e formazione, che si trasferì a Roma nel 1534 rimanendovi fino alla morte, avvenuta trent’anni dopo. Il nucleo forte è dato da quella che appare come una profonda crisi spirituale, che porta Michelangelo a interrogarsi spesso sulla funzione vera della sua arte e sul ruolo dell’artista in generale; in tempi di scontri religiosi, di eresie, di repressioni violente e soprattutto in un momento in cui la chiesa apostolica è tesa maggiormente a difendere il proprio peso politico che non a curare la sua missione evangelica, che cosa può fare l’artista per il bene e per l’esaltazione di Dio? Che spazio occupano, inoltre, in questo viaggio terreno dedicato all’arte nella sua più alta espressione, la vita privata, l’amore, le relazioni d’amicizia e quelle professionali? Cosa può fare, in ultima, il singolo uomo pur dotato del massimo ingegno, contro quelle che paiono essere subdole macchinazioni orchestrate da menti maligne in stanze sempre più nascoste e insieme sempre più autocelebrative? Non sfugge all’occhio vigile del Sant’Uffizio questo suo perpetuo dubitare, che lo mette in contatto, attraverso l’angelica figura di Vittoria Colonna, con gli ambienti degli Spirituali di Pole, senza tuttavia mai compromettersi definitivamente e pur vedendo attorno a sé assommarsi la violenza, il dolore, la morte, tutte figure di quella che assume le fattezze un’ineludibile sconfitta. Solo l’arte rimane, sembra dire Michelangelo e con lui l’autore. Un’arte magnifica e senza tempo che ha trovato il suo luogo d’elezione nella città eterna, che eternamente cade e si rialza.
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