Spazio [spà-zio] s.m. (pl. -zi)
Non starò qui a cercare
parole che non trovo
per dirti cose vecchie
con il vestito nuovo
F. Guccini – Canzone quasi d’amore
Senza pensare alle stelle, alle palle di terra e gas appese chissà dove; perché a guardare quello spazio vien meno la capacità di misurare, di avere chiaro in testa il senso delle proporzioni, il posto che una cosa ha rispetto all’altra. “Dove”, nello spazio infinito, non ha molto senso per noi, per il nostro qui. “Quando”, nello spazio, non ha molto senso per noi, per il nostro ora.
Oggi penso allo spazio da pochi soldi che abbiamo attorno, in questo pianeta, o meno ancora, nel nostro ambiente, a casa, in ufficio, tra i colleghi, con gli altri, lo spazio che è (al)la nostra portata di mano.
Si sa: quando e dove noi siamo, lì agiamo e dunque comunichiamo. Non solo a parole, dunque, ma anche attraverso scelte d’abbigliamento, silenzi, espressioni facciali, gesti, posizioni, Sì, anche a seconda del rapporto che instauriamo con l’altro dal punto di vista spaziale, di reciproca vicinanza, noi diciamo qualcosa.
C’è una scienza che studia il modo in cui noi ci rapportiamo agli altri in termini di distanza spaziale. Prossemica, si chiama. L’ha così definita un antropologo inglese di nome Hall nel 1963, in seguito specificando ed approfondendo sempre più questa nuova ed affascinante branca della semiologia. A livello teorico ed anche a livello pratico, l’analisi di Hall, pionieristica, mirava a spiegare il ruolo dello spazio prossimo nella vita quotidiana di ciascuno di noi, proponendosi come una tecnica di lettura della spazialità come canale di comunicazione.
Wittgenstein (Pensieri diversi) disse:
Lascia al lettore ciò di cui è capace anche lui
Ciò vuol dire anche: non essere ridondante, non soffermarti troppo sul già noto o su quello che l’altro ci può mettere di suo. Non esagerare.
Spesso l’altro è visto come oggetto di inclusione, ignara vittima delle mire espansionistiche di un maramaldeggiante conquistatore. Fammi spazio! senti gridare da qualcuno nel modo solerte e sovente silenzioso che hanno gli imperialisti. Ed è solo questione di spazio. Poco importa che ci sia tu o un altro lì, ciò che conta è la fetta di terra, il nuovo pezzetto che sta sotto ai piedi.
Il che non vuol dire ridurre le cose dell’amore ai minimi termini, come fosse un elenco di tante parole, sole, un affastellarsi nucleare di nomi. Certo che no, l’amore è più simile ad un discorso, ad una narrazione, ad una storia, fatta anche di ricordi di cui, paradossalmente, a volte non siamo i protagonisti ma che l’altro trattiene, come un deposito. L’altro è il nostro forziere.
Noi siamo, come dice Borgna, un colloquio. Continuo, inesausto. Aperto. I latini avevano un termine specifico che riassumeva la capacità dell’oratore di produrre un discorso lungo ed insieme armonico ed elegante: dicevano concinnitas, con una parola, a ben guardare, elegante essa stessa, capace di riempire la bocca senza estenuare.
E Seneca, che era latino, ma anche stoico diceva:
Non si scoprirà mai nulla, se ci accontentiamo di quanto è già stato scoperto. Inoltre, chi segue le orme di un altro non trova nulla, anzi neppure cerca. E allora? Non seguirò le orme dei predecessori? Percorrerò la vecchia strada, ma, se ne scoprirò una più breve e più piana, la aprirò. Coloro che hanno riflettuto su questi problemi prima di noi non sono nostri padroni, ma nostre guide. La verità è accessibile a tutti; nessuno se ne è ancora impossessato; gran parte di essa è stata lasciata da scoprire anche ai posteri.
Che non è in contrasto con ciò che diceva Wittgenstein, a ben guardare.
L’infinità siderale non ci appartiene ma ci aiuta a porre mente all’origine del termine desiderio (de-sidus,), che è sempre e soltanto desiderio di essere ciò che siamo, nell’unico e originale modo che fa sì che tutto lo spazio per essere anche cosmo, ordine, abbia bisogno di ciascuno di noi. C’è tanta verità che dobbiamo ancora scoprire, standoci accanto, da rendere la nostra vita un florido giardino.
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