Alcune mie note di lettura sul romanzo d'esordio di Elena Rui, La famiglia degli altri, appena uscito per Garzanti Editore.
Ce n'est pas du tout ma faute. C'est faux de dire: Je pense:
on devrait dire on me pense. - Pardon du jeu de mots: JE est un autre[1].
Sono sempre più convinto che uno scrittore sia innanzitutto una persona che interroga: il mondo, gli altri, se stesso. E che, stando alla narrativa, un romanzo sia un distillato, in forma di racconto, di un nucleo di dubbi. Non una risposta o una serie di risposte, non una precettistica, non una soluzione. Il romanzo non deve rincuorare, né aumentare l’agio con cui si sta al mondo. Per questo ci sono altre sembianze di realtà. Il romanzo dovrebbe scuotere e farlo per le storie che racconta, per la lingua in cui l’autore le fa accadere, per le questioni che vengono svelate. Quando si dice (si diceva) che la verità è aletheia, si mirava propriamente a indicare quell’accadimento fondamentale che sta prima del vero e del falso, e che permette il porsi del giudizio. Ecco, in qualche misura un romanzo dovrebbe aprire la possibilità di farsi un giudizio.
La famiglia degli altri, romanzo d’esordio di Elena Rui, scrittrice padovana che da anni vive e lavora a Parigi, è un esempio tra i più recenti e riusciti di quello che intendo.
Marta e Antoine sono una coppia. Lei, italiana, si è trasferita da dieci anni a Parigi dove insegnando lingua e cultura italiana ha conosciuto lui, col quale è nata una storia e ha fatto una figlia, Giulia, che ha tre anni e mezzo. La coppia sta attraversando un momento di difficoltà: alla fase dell’unione e dell’esclusività, ne è succeduta un’altra in cui ognuno era libero di frequentare altre persone. La fase della coppia aperta, come si suol dire. Fase fallita e patto saltato nel momento in cui la giovane stagista, con cui Antoine si vede, chiama a casa per far sapere a Marta di esistere e per rivendicare un ruolo. La morte della nonna Ada e il conseguente ritorno di Marta in Italia per il funerale accadono quando Antoine cerca di ricucire lo strappo e di riportare lamoglie quantomeno alla situazione sancita dal patto.
Attorno a questo si coagulano le riflessioni della protagonista, alle quali abbiamo accesso privilegiato e continuo, e anche quelle di Antoine, con il quale Marta prosegue un serrato dialogo anche a distanza.
Pensò compiaciuta che gli scambi con suo marito assomigliavano a dei palleggi fra due giocatori rodati ed esperti, che non si lasciavano mai scappare il pallone. Avrebbero potuto continuare per ore, per settimane, per mesi, per anni, per il resto della vita a rinviarsi la palla senza mai lasciarla cadere: si capivano perfettamente, anche quando non c’era accordo sulla situazione che stavano discutendo o commentando. [p. 168]
Sullo sfondo, illuminata dalla luce della grande storia letteraria, filosofica, culturale, la couple magniphique formata da Simone De Beauvoir e Jean-Paul Sartre, visti da Antoine come l’esempio da (in)seguire, da Marta come un elemento estraneo e straniante con cui fare i conti. Per Antoine sono soprattutto la coppia da imitare, per Marta sono due singoli individui da comprendere. In gioco per la protagonista, al di là della propria situazione sentimentale e, ancor più, della direzione che prenderà la sua famiglia, c’è anche la chiarificazione dei dubbi relativi alle convenzioni sociali da un lato e allo spazio di cui ciascuno gode per determinarsi e decidere del proprio destino.
Una certa componente autobiografica nella storia è, a questo riguardo, evidente e a certificarlo concorre anche una dichiarazione dell’autrice posta alla fine del libro, in una intervista sulla ideazione e composizione del romanzo. Normalmente, che la finzione sia intrecciata ad elementi autobiografici e che quella da questi tragga anche origine se non soltanto alimento, è cosa quasi scontata e che non rientra nei motivi di una analisi testuale. A importare è il romanzo, l’esito letterario. In questo caso credo che simile relazione costituisca un valore aggiunto e che questo esito abbia voluto dire non soltanto il (sempre parziale) soddisfacimento di un desiderio narrativo, ma viepiù la dimostrazione che a volte la ricerca di una voce passa per la remissione del debito contratto con le voci degli altri. Presenti o assenti. Risonanti o echeggianti.
Quello che conta è che siano filtrate, nelle vicende narrate, le domande che l’autrice è andata nel tempo facendosi sulla questione dei generi, sugli stereotipi che dei generi forniscono una immagine fissa nel tempo, sulle possibilità di uscire da quegli stereotipi e di rendere dinamica quell’immagine. Credo che se non si chiede a uno scrittore di dare risposte – e non si deve chiedere, ripeto – si può d’altra parte pretendere che sia onesto, sacrificando la tentazione del giudizio alla capacità di assumere le parti in causa, e mostrarle in azione. Elena Rui, attraverso i vari personaggi che animano la storia, prova a fare questo e in questo riesce. Non è un romanzo a tema, non è un romanzo a tesi pericolo narrativo sul quale anche Marta viene messa in guardia dal padre in un ruvido dialogo che orna una sorta di mise en abyme tra realtà e finzione.
Il secondo aspetto che più mi ha colpito, e favorevolmente, è legato alla struttura del romanzo, e segnatamente alla presenza di un prologo e di un epilogo che incorniciano la vicenda. Aristotele dedica il III libro della Retorica (un testo forse inizialmente a sé stante e poi unito ai due primi libri) alle figure retoriche e alla disamina delle parti del discorso, ovvero a quelle che nella ripartizione classica della teoria argomentativa sono la elocutio e la dispositio. Ed è proprio affrontando la dispositio che mette in chiaro cosa sia e a cosa serva la zona preliminare di un discorso (prologo, proemio, esordio etc.):
L’esordio è l’inizio del discorso, quel che sono il prologo in poesia e il preludio nel flauto: tutti questi sono degli inizi, l’inaugurazione della strada, per così dire, per chi procede. […] Nei discorsi e nell’epica si ha un’esposizione del soggetto, in modo che gli ascoltatori sappiano in anticipo di che cosa parla il discorso e il pensiero non resti in sospeso, poiché ciò che è indefinito porta fuori strada. Chi pone l’inizio, per così dire, nelle mani dell’ascoltatore lo mette nelle condizioni – se vi si attiene – di seguire il discorso. […] La funzione essenziale e specifica dell’esordio consiste nel rendere evidente quale sia il fine cui tende il discorso[2].
Il prologo del romanzo di Elena Rui rispetta proprio queste indicazioni vecchie di più di ventitré secoli e mai sconfessate e lo fa, a mio avviso, coscientemente. La scena dipinta nel prologo, cui torneremo fra poco, non ha alcuna altra necessità di esistere. So che sembra un’affermazione paradossale (del resto, il romanzo è tale e privarlo di una sua parte renderebbe il romanzo un altro romanzo), ma se il romanzo fosse iniziato dal capitolo uno sarebbe cambiato poco o nulla; la storia, come si dice, non ne avrebbe risentito. Eppure, senza il prologo che abbiamo davanti quella storia non avrebbe avuto alcun senso, alcuna direzione.
Ad aprire dunque il romanzo é una scena di morte, quella di Ada, la nonna di Marta. Ne riporto quelle che sono le fasi principali a supporto del discorso che intendo portare avanti.
Alle 12 del 25 maggio 2012, la dentiera di Ada era ancora in ammollo nel bicchiere posato sul comodino prima di coricarsi. Se ne stava in placida apnea, Immersa in un liquido azzurrino, di fianco alla foto in bianco e nero del compianto Augusto, ignara del fatto che di lì a qualche ora avrebbe terminato la sua carriera di protesi nel bidone del secco non riciclabile. Un Rosario di legno chiaro attraversava in diagonale il volto severo della fotografia nascondendone l'occhio sinistro e il baffo destro. Infilato fra il bordo e il vetro della cornice, un santino di Padre Pio ammoniva con sguardo solenne un pubblico virtuale. In questa stanza non c’era proprio nessuno, neppure Ada, passata con noncuranza dal sonno alla morte alle ore 3:05. […] macchie di gerani a ogni balcone, una sedia a dondolo sotto il porticato e un roseto che divide in due il cortile di ghiaia delimitato da uno steccato di legno verde. […] La carta da parati a righe ocra e bianche interrotte da piccoli bouquet fioriti. Il bric-à-brac in falso liberty; il lampadario carico di gocce di cristallo: ogni mobile, ogni suppellettile faceva presagire una presenza senile nella casa, ma in quelle stanze abbacinate da un precoce sole estivo, la morte restava inimmaginabile. Nel soggiorno il canarino saltava nervoso dal trespolo alla mangiatoia, dalla mangiatoia al trespolo con un cinguettio querulo e risentito. A intervalli sostava rassegnato sulla bocchetta del contenitore dell’acqua e becchettava qualche goccia per ingannare l’appetito. La pendola suonò mezzogiorno in un salotto immerso nella luce, odorante di violette e mughetto distribuiti in mazzolini agli angoli della stanza. […] Alle 12 in punto il telefono suonò a lungo nel corridoio, insistente suonò di nuovo alle 12:15, poi alle 12:40, alle 13, e, a intervalli regolari, fino a sera. Infine tacque. [pp. 11-12]
Questo è il prologo ed è grazie ad esso, alla sua funzione illuminante, che è possibile, tra le altre cose, leggere questo romanzo come la cronaca di un processo di risignificazione di cose e spazi, di cui Marta, la protagonista, gradualmente e diegeticamente si riappropria. Vediamo come.
Se ben guardato, quello descritto nel prologo è un ambiente immobile e silenzioso, un ambiente in cui la vita è temporaneamente cessata e tutti gli oggetti sono colti in una sorta di paradossale inattualità: la dentiera che non andrà più in alcuna bocca, la carta da parati che non sarà più guardata, la sedia a dondolo che non dondolerà, i fiori che spargono profumo in stanze disabitate. A rompere il silenzio il canto di un canarino che non ha coscienza del tempo e il suono della pendola che il tempo è chiamata a misurare per i vivi. Canarino a parte, la morte di Ada ha privato ogni oggetto della sua funzione, ma quello che importa è che la casa così com’è ancora fissata nello sguardo esterno del narratore è la casa che appartiene alla sua abitante, c’è corrispondenza tra i due elementi, corrispondenza che evapora immediatamente, perché questo fa la morte.
Quando Marta arriva a casa di Ada e vede i parenti vestiti a festa e ricorda di averli sempre visti vestiti a festa nei ritrovi di famiglia, si compiace di aver comprato un trolley alla stazione, in sostituzione di un vecchio e brutto borsone militare: «I rapporti convenzionali richiedono comportamenti convenzionali e quello non era né il luogo né il momento adatto per impuntarsi a essere sé stessa» [p. 109].
Il viaggio di Marta è soprattutto un viaggio nelle cose e nello spazio, e nella comprensione della propria relazione con le cose e con lo spazio. Il passo sopra riportato va collegato con quanto detto una decina di pagine prima, al momento dell’acquisto del trolley, in stazione:
Lo comprò d’impulso e sperò che il ritardo di Alberto si protraesse quanto bastava a darle il tempo di trasferire tutti i vestiti e di ricomporsi. […] Come aveva potuto pensare di presentarsi a lui con quella roba sulla spalla? Si rese conto del valore scaramantico del proprio gesto: non aveva voluto preoccuparsi del dettaglio estetico della borsa per non dare troppa importanza alla presenza di Alberto, ma ora che era sicura che sarebbe arrivato desiderava con tutte le forze essere inappuntabile. [p. 97]
I due momenti si illuminano a vicenda, e mostrano che le motivazioni dello stesso gesto possono essere molteplici, all’apparenza quasi contrarie: il rispetto di una convenzione, il desiderio di mostrarsi al meglio. O non è forse più vero che sono gli stessi desideri che crediamo di perseguire e assecondare ad essere spesso il risultato di un’adesione fatale alla convenzione?
Tornare in Italia è per Marta una sorta di laica catabasi. Scende negli inferi della storia familiare e in quelli della sua idea di amore. Attraverso la storia raccontata di Ada e la storia rivissuta con Alberto, fuochi di un’ellisse esistenziale dalla quale la giovane Marta è fuggita, emigrando in Francia, Marta può finalmente dare le nuove coordinate alla sua vita e ricalibrare la direzione al proprio desiderio.
E se le convenzioni sussistenti nelle relazioni dei suoi parenti più stretti non fanno che confermare un certo tipo di relazione in modo veritiero ma statico (su tutte varrebbe sottolineare la coppia formata dagli zii Domitilla e Dario, e l’insuperabile contrasto tra pulsione di morte e pulsione di vita, come a pag. 134), in questa discesa assume un ruolo fondamentale una tappa tanto sordida quanto necessaria: l’incontro con un tombeur-de-femmes incontrato in modo casuale in un bar, alla cui abitazione si reca per un presumibile rendez-vous sessuale. È grazie a lui che il cerchio si può chiudere, benché in modo ancora inconsapevole per Marta.
A un design sobrio ed elegante, in cui gli spazi erano scolpiti con rigore geometrico da mobili bassi e minimalisti, era stata aggiunta un’accozzaglia di soprammobili shabby chic, mescolati a decorazioni etniche e a motivi montani. Sembrava che una sessantenne hippy, una casalinga appassionata di chalet e una nonnina di ottant’anni avessero arredato, ciascuna a modo suo, angoli diversi di un interno progettato da un architetto di grido. Decine di maschere africane di tutte le dimensioni ingombravano la metà della parete dietro al divano. La parete opposta era carica di oggetti di legno intagliato, di quadretti di gusto tirolese e d’imitazioni in resina di trofei di caccia. C’erano poi una gabbietta per uccellini vuota, una collezione di candele colorate esposte in una bacheca, un mappamondo antico, un vecchio tavolo di legno massiccio studiatamente consumato e decorato con un centrino, un grandioso lampadario a bracci che riprendeva in chiave moderna la forma di quelli dei saloni ottocenteschi. Inspiegabilmente, l’insieme aveva un aspetto caloroso e accogliente: ci si stava bene in quello strano posto. [p. 220]
Che in gioco sia una generale sconnessione, viene confermato da un episodio in cui quella sconnessione si fa particolare. Per superare un momento di impasse, il dongiovanni di provincia ricorre all’aiuto della musica.
«Conosci Gainsbourg» chiese avvicinandosi all’impianto stereo e trafficando con manopole e bottoni. «Certo», rispose Marta rendendosi conto in quell’istante che la musica era cessata da un po’. «Mettiamo questa, che è sensuale e… anche un po’ romantica. Ti piace?» «Per piacermi mi piace», disse Marta orecchiando Je t’aime… moi non plus. «Anche se… ecco, più che romantica la definirei cinica. È una canzone molto cinica. Mentre fanno l’amore lei gli dice je t’aime e lui le risponde “nemmeno io”. Capisci?» [p. 224]
Ecco, simboleggiato, lo scollamento tra il significante e il suo significato; un fatto che riproduce, linguisticamente, quanto mostrato parlando degli oggetti e degli spazi.
Questa ultima tappa nel viaggio di Marta sembra davvero completare l’opera. Se pur accogliente e caloroso, il luogo non appartiene al suo abitatore, non esclusivamente almeno. Sembra arredato da altri, forma un’accozzaglia di elementi eterogenei. È vivo, ma non rappresentativo così come, specularmente, all’inizio, quello di Ada era morto ma pertinente. Non sfuggirà che l’anello di congiunzione è dato dalla gabbietta per uccellini, da Ada abitata da un canarino trillante, qui vuota.
L’epilogo, di cui non diciamo, metterà la parola conclusiva all’itinerario dell’anima di Marta verso il proprio spazio: nella coppia, nella casa, nel mondo. Un viaggio iniziato in uno stato di contumacia sentimentale e conclusosi inaspettatamente in una nuova circoscrizione dell’amore.
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